A volte la cancellazione di significato che accompagnò il rifacimento delle Americhe sbuca inaspettatamente dal paesaggio. Così accadde a me, molti anni fa, quando uscii dall’autostrada per dare un’occhiata ai Four Corners, un monumento che segnala l’unico punto degli stati uniti in cui s’incontrano quattro stati: Arizona, Colorado, New Mexico e Utah. Il monumento si trova a poca distanza dalla Route 160, che si snoda in alcuni dei paesaggi più spettacolari della Terra. Le montagne, i canyon e i deserti che attraversa sono così fulgidi che è facile comprendere perché gli abitanti nativi, i diné (navajo), attribuissero al paesaggio un valore metafisico. Questa per loro era Dinétah, la terra dove i Primi Esseri erano risaliti dal Mondo di Sotto. «È qui» scrive la storica diné Jennifer Nez Denetdale «che avvennero molti dei fatti narrati nei racconti di creazione, a cominciare dall’emersione dai mondi sotterranei nel nostro mondo, il Mondo Splendente.
Il Mondo Splendente non dista molto dal monumento dei Four Corners, ma è come se tra i due si estendesse un oceano. Nelle vicinanze non c’è nulla di interessante, non un maestoso monolite, non una gola o un canyon: è piazzato in mezzo alla sterpaglia che ricopre il deserto «come una puntina su una carta geografica». Consiste di due linee rette, tracciate su una base di cemento.
Non c’è assolutamente nulla di suggestivo in questa struttura eppure l’incrociarsi delle linee ha qualcosa di perturbante. I visitatori che fanno la fila per vederlo ricorrono a infiniti stratagemmi per toccare per toccare il punto esatto in cui le due linee s’intersecano. Alcuni si piazzano sopra dritti in di piedi per farsi fotografare, altri stanno in equilibrio sulla punta dei piedi, altri ancora divaricano gambe e braccia lungo le linee cercando di posare l’ombelico esattamente nel punto d’intersezione, quasi volessero indicare simbolicamente quel punto come l’ombelico della Terra – un emphalos, quale era Delfi per i greci.
C’è una sorta d’incantesimo nell’aria, ma non ha nulla a che vedere col paesaggio; è dovuto semmai alla geometria euclidea e alle linee che gli europei tracciarono sulla superficie del globo quando cominciarono a conquistare il mondo. Una è quella della longitudine, che si misura a partire dalla lontana Greenwich, in Inghilterra, evocando così la patria immaginaria dei coloni che la tracciarono. Per loro, quel paesaggio traeva significato dal «nostro amato paese natale», per quanto lontano fosse.
Per i diné, invece, ogni tratto del paesaggio era saturo di significato.
Barboncito, un capo diné vissuto a metà Ottocento, una volta spiegò l’attaccamento del suo popolo alla terra con queste parole: «quando i navajo vennero al mondo ci vennero indicati quattro monti e quattro fiumi entro i quali dovevamo vivere, quello sarebbe stato il nostro paese, e ci fu donato dalla prima donna della tribù navajo».
Simili racconti, e le configurazioni geografiche cui sono legati, costituiscono una sorta di scrittura sacra per i navajo: i monti sono le loro cattedrali;
le rocce e i torrenti sono l’equivalente delle vetrate istoriate.
Eppure il loro attaccamento alla terra d’origine non impedì che venissero allontanati, nel 1864, dal colonnello Kit Carson e dall’esercito degli Stati Uniti. Bruciando le riserve di cibo, tagliando gli alberi da frutto e sterminando il bestiame, Carson e i suoi soldati sconfissero i diné azzerando la loro rete di sostentamento. Impoveriti e inermi, migliaia di diné furono condotti a tappe forzate a Bosque Redondo in New Mexico, una zona arida dove non cresceva nulla. Morirono a centinaia durante la marcia, e a migliaia durante la prigionia.
Anni dopo, quando ai diné fu infine concesso di far ritorno in una parte del loro territorio ancestrale, uno dei loro capi letteralmente bramava interloquire con il suolo: «Avevamo il desiderio» disse «di parlare alla terra, tanto l’amavamo».
da: Amitav Ghosh, La maledizione della noce moscata, ed. Neri Pozza 2022, pagg. 58-59