CARLO DUBITA

March 16th, 2024 by Pabuda

CARLO DUBITA

NOI, CHE NON SIAMO FASCISTI…

February 24th, 2024 by Pabuda

(…) lo Stato è uno strumento, un meccanismo, un mezzo necessario per ottenere determinati obiettivi considerati propriamente dei valori. Vero è che riguardo alla domanda «che cosa dobbiamo considerare un valore?» non esiste accordo fra gli uomini, non vi fu in passato e possiamo affermare con largo margine di sicurezza che mai vi sarà. Ma, indipendentemente dalla natura dei valori che un uomo persegue o che diversi gruppi umani perseguono, lo Stato non ha altro senso che quello di costituire l’ambito, di fornire la struttura che permetta agli uomini di tendere verso determinati valori. E non esistendo fra gli uomini unanimità di consensi sui valori, lo stato non fascista si trova a essere non una struttura unificatrice, ma un campo di battaglia. Il principio dello Stato come struttura unificatrice è un’idea eminentemente fascista: ein Volk, ein Reich, ein Führer – ecco l’essenza del totalitarismo.            cover EBREI MODERNI

Lo stato democratico è il campo di battaglia di uomini che sostengono ideali diversi e che tendono alla realizzazione di tali ideali. Il vantaggio dello stato democratico consiste nella possibilità che dà agli uomini di combattere per ideali opposti; possibilità che è preclusa dallo stato totalitario.

Se lo stato non ha valore intrinseco, bisognerà parlarne dal punto di vista del suo valore strumentale. E qui va subito aggiunto a quanto detto sopra che non solo lo stato non è un valore: esso non è neppure uno strumento atto a concretare dei valori. I valori non possono essere realizzati da un ingranaggio di potere; essi sono realizzabili solo grazie agli sforzi e alle lotte dei singoli individui. Rispetto ai valori, il senso dello stato non è quello di essere uno strumento di realizzazione, bensì di offrire agli uomini la possibilità di combattere in loro favore. Noi, che non siamo fascisti, non chiediamo allo Stato altro che di non essere d’intralcio agli uomini nel loro tentativo di realizzare cose che considerano dei valori. Da questo punto di vista, la superiorità di un regime si esprime nella debolezza dell’ingranaggio del potere: quanto meno questo è in grado di imporre il proprio volere ai suoi soggetti, tanto meglio è.

da: Yeshayahu Leibowitz, Fede, storia e valori, in David Bidussa (a cura di) Ebrei moderni. Identità e stereotipi culturali  ed. Bollati Boringhieri, 1989, pagg. 49-50

L’ESISTENZA DELL’ALTRO

February 24th, 2024 by Pabuda

Il fatto stesso che esistano altri esseri umani limita le mie possibilità di realizzare tutti miei desideri e sviluppare tutte le mie intrinseche potenzialità. Ogni essere umano con cui vengo in contatto è un ostacolo sulla mia strada, anche se non ha nessuna perfida intenzione nei miei riguardi. Accanto a me può sedersi una persona che è mia amica da quarant’anni; tra di noi non c’è mai stato un dissidio, io non ho ragione di lamentarmi di lui né lui di me. Però il fatto stesso che egli esista, rappresenta per me una limitazione: in questo istante non posso sedermi su quella sedia perché c’è seduto lui. Yeshaia_Leibowitz (Photograph_by_Grubner)(…) Nel momento in cui due uomini si incontrano, ciascuno dei due non è più libero, poiché l’esistenza stessa dell’altro preclude al primo svariate possibilità. L’esistenza in comune di miliardi di esseri umani su questo piccolo globo sembra apparentemente impossibile.

da: Yeshayahu Leibowitz, Fede, storia e valori in David Bidussa (a cura di) Ebrei moderni. Identità e stereotipi culturali, ed. Bollati Boringhieri, 1989, pag. 51

nell’illustrazione: Yeshayahu Leibowitz fotografato da Grubner

 

 

VALORI, BISOGNI, FASCISMO

February 24th, 2024 by Pabuda

(…) Noi distinguiamo fra valori e bisogni da soddisfare. Sono due ordini di cose non solo diversi, ma persino in larga misura antagonistici. Ogni cosa di cui un uomo ha bisogno è indifferente sul piano dei valori: quando se ne ha bisogno, non si può esercitare nei confronti di essa né una scelta, né una decisione o risoluzione. I valori, viceversa, sono cose che gli uomini stabiliscono in base a risoluzioni e decisioni e che hanno significato normativo per chi le stabilisce. Lo Stato è appunto privo di tali requisiti. Uno Stato è un ingranaggio atto a soddisfare determinati bisogni; sotto Professor_Yeshayahu_Leibowitz_Lecturing_in_the_He questo aspetto non ha alcun valore intrinseco, ma la sua esistenza è necessaria. Tale concezione dello Stato è comune alle due grandi e contrapposte scale di valori che albergano nella coscienza umana. Esiste, invero, un terzo universo di valori (…) ma per il momento non ne faremo cenno, poiché rappresenta per noi l’immondizia della coscienza umana. I due mondi di valori legittimi sono da un lato la scala di valori religiosa, secondo la quale le questioni e le faccende umane, i rapporti fra gli uomini e il problema della regolamentazione dei loro affari, tutto viene stabilito, valutato, strutturato e reso suscettibile di critica prendendo per unità di misura la posizione dell’uomo davanti a Dio; dall’altro lato la scala di valori umanistica o atea (umanesimo e ateismo sono la stessa cosa), secondo la quale le faccende e le questioni umane, così come i rapporti fra gli uomini e il problema della soluzione di tali questioni e della regolamentazione degli affari umani – tutto ciò è stabilito, strutturato, valutato e reso suscettibile di critica seguendo il criterio della posizione dell’uomo dinanzi al suo simile, o dinanzi all’insieme chiamato umanità. Queste due scale di valori sono contrapposte e non esiste possibilità di compromesso o di sintesi. Ma c’è un punto in cui esse s’incontrano, proprio nei confronti dell’istituzione chiamata Stato: per entrambe le scale di valori, la religiosa e la umanistica, lo Stato non è un valore in sé. Viceversa, esiste anche una visione dello Stato come valore, cioè un atteggiamento verso gli affari e i problemi umani, verso i bisogni dell’uomo e le relazioni fra gli uomini, così come verso il problema della soluzione di tali questioni, basato totalmente sul criterio della posizione dell’uomo dinanzi allo Stato. Questa concezione si chiama fascismo: essenza del fascismo è considerare lo Stato un valore. Qui è una delle fonti dell’iniquità e del male.

 

da: Yeshayahu Leibowitz, Fede, storia e valori, in David Bidussa (a cura di) Ebrei moderni. Identità e stereotipi culturali, ed. Bollati Boringhieri, 1989, pagg. 48-49).

Nella foto: il Professor Yeshayahu Leibowitz in cattedra all’Università Ebraica di Gerusalemme, durante una delle sue lezioni di chimica.

 

CON MIO PADRE IN PARADISO

February 7th, 2024 by Pabuda

Una volta ho provato a scrivere un racconto su me e mio padre che ci ritroviamo in paradiso. Una prima stesura di questo libro cominciava anzi così.            800px-Kurt_Vonnegut_1972 Wikipedia

In quel racconto, io speravo di diventare suo buon amico. Ma la storia poi prendeva una piega perversa, come spesso succede ai racconti su persone da noi realmente conosciute. In paradiso a quanto pare uno può essere dell’età che più gli aggrada, purché abbia avuto quell’età sulla Terra e non sia morto prima. Quindi John D. Rockefeller, il fondatore della Standard Oil, potrebbe avere qualsiasi età fino a un massimo di novantotto anni. Re Tut potrebbe avere al massimo diciannove anni, e così via. In quanto autore del racconto, rimasi di stucco nello scoprire che mio padre in paradiso aveva scelto di avere solo nove anni.

Io avevo scelto di averne quarantaquattro: rispettabile ma ancora piacente. Lo sbigottimento verso Papà si tramutava in imbarazzo e rabbia.

Lui sembrava un lemure, a nove anni, tutto occhi e mani. Aveva un infinito assortimento di album e matite, e non faceva che tallonarmi e disegnare tutto quel che capitava, pretendendo poi da me che ammirassi i suoi schizzi. Nuovi conoscenti mi chiedevano chi fosse mai quello strano marmocchio, e a me toccava rispondere la verità, perché in cielo non si può mentire: “È mio padre.”

I prepotenti si divertivano a tormentarlo, perché era diverso dagli altri bambini. A lui non piacevano discorsi e giochi infantili.

I ragazzacci lo rincorrevano, gli toglievano i calzoni e le mutande e glieli buttavano nella voragine dell’inferno. La voragine aveva un’imboccatura simile a un pozzo dei desideri, però senza secchio né carrucola. Se ti sporgevi dal bordo potevi sentire gli urlacci di Hitler e Nerone, di Giuda e Salomè e compagnia bella, da giù in fondo in fondo.

Io mi immaginavo Hitler, già in preda ai massimi tormenti, che ogni tanto si ritrova sulla testa le mutande di mio padre.

Ogniqualvolta gli portavano via i pantaloni, Papà correva da me, rosso di rabbia. Di solito, proprio in quel momento, mi trovavo in compagnia di nuovi amici, e li stavo conquistando con la mia civiltà – quand’ecco che arrivava mio padre, strillando come un satanasso, col pisellino oscillante alla brezza.

Mi lamentavo di lui con mia madre, ma lei non ne sapeva niente, né di lui né di me, dal momento che aveva solo sedici anni. Quindi dovevo sopportarlo, e l’unica cosa che potevo fare era sgridarlo di tanto in tanto: “Per l’amor di Dio, Papà, quand’è che crescerai?”

E così via. Il racconto prendeva una piega sempre meno simpatica, quindi smisi di scriverlo.

 

da: Kurt Vonnegut, Un avanzo di galera, ed. Giunti 2021

AL CENTRO DI OGNI CONFLITTO

January 28th, 2024 by Pabuda

La storia si trova al centro di ogni conflitto. Una comprensione veritiera e imparziale del passato offre la concreta possibilità della pace. Al contrario, la sua distorsione e manipolazione non possono che disseminare fallimenti. Come mostra  COVER dieci miti su isrele  chiaramente il caso israelo-palestinese la disinformazione storica, anche del passato più recente, può provocare danni enormi. Questo intenzionale fraintendimento della Storia ha permesso l’oppressione di un popolo e legittimato un regime coloniale e di occupazione. Non c’è da stupirsi quindi che queste politiche di disinformazione siano sopravvissute fino ai giorni nostri e svolgano una parte importante nel protrarsi di un conflitto che lascia sempre meno speranza per il futuro.

da: Ilan Pappé, Prefazione alla prima edizione (2017) di Dieci Miti su Israele, Tamu edizioni 2022

UN CANE

January 27th, 2024 by Pabuda

In un bosco dove mi ero nascosto, incontrai di notte un cane, malato, famelico, forse anche impazzito, con la coda fra le gambe. Entrambi sentimmo subito la comunanza, se pure non i__id12309_mw1000__1xla somiglianza della nostra situazione, infatti la condizione dei cani è certo di gran lunga migliore della nostra. Si appoggiò a me, affondò la testa nel mio grembo e mi leccò le mani. Non so se ho  mai pianto come in quella notte: mi gettai al suo collo e scoppiai in singhiozzi come un bambino. Quando affermo che allora invidiavo le bestie, non c’è da stupirsi, ma ciò che provai in quel momento era più che invidia, era vergogna. Mi vergognavo davanti al cane di non essere un cane, ma un uomo.

(da: Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, Piccola Biblioteca Adelphi 1997, pagg. 12-13)

IL VUOTO AI QUATTRO ANGOLI DEGLI USA

December 21st, 2023 by Pabuda

A volte la cancellazione di significato che accompagnò il rifacimento delle Americhe sbuca inaspettatamente dal paesaggio. Così accadde a me, molti anni fa, quando uscii dall’autostrada per dare un’occhiata ai Four Corners, un monumento che segnala l’unico punto degli stati uniti in cui s’incontrano quattro stati: Arizona, Colorado, New Mexico e Utah. Il monumento si trova a poca distanza dalla Route 160, che si snoda in alcuni dei paesaggi più spettacolari della Terra. Le montagne, i canyon e i deserti che attraversa sono così fulgidi che è facile comprendere perché gli abitanti nativi, i diné (navajo), attribuissero al paesaggio un valore metafisico. Questa per loro era Dinétah, la terra dove i Primi Esseri erano risaliti dal Mondo di Sotto. «È qui» scrive la storica diné Jennifer Nez Denetdale «che avvennero molti dei fatti narrati nei racconti di creazione, a cominciare dall’emersione dai mondi sotterranei nel nostro mondo, il Mondo Splendente.   Four_Corners_marker,_southwestern_United_States

Il Mondo Splendente non dista molto dal monumento dei Four Corners, ma è come se tra i due si estendesse un oceano. Nelle vicinanze non c’è nulla di interessante, non un maestoso monolite, non una gola o un canyon: è piazzato in mezzo alla sterpaglia che ricopre il deserto «come una puntina su una carta geografica». Consiste di due linee rette, tracciate su una base di cemento.

Non c’è assolutamente nulla di suggestivo in questa struttura eppure l’incrociarsi delle linee ha qualcosa di perturbante. I visitatori che fanno la fila per vederlo ricorrono a infiniti stratagemmi per toccare per toccare il punto esatto in cui le due linee s’intersecano. Alcuni si piazzano sopra dritti in di piedi per farsi fotografare, altri stanno in equilibrio sulla punta dei piedi, altri ancora divaricano gambe e braccia lungo le linee cercando di posare l’ombelico esattamente nel punto d’intersezione, quasi volessero indicare simbolicamente quel punto come l’ombelico della Terra – un emphalos, quale era Delfi per i greci.

C’è una sorta d’incantesimo nell’aria, ma non ha nulla a che vedere col paesaggio; è dovuto semmai alla geometria euclidea e alle linee che gli europei tracciarono sulla superficie del globo quando cominciarono a conquistare il mondo. Una è quella della longitudine, che si misura a partire dalla lontana Greenwich, in Inghilterra, evocando così la patria immaginaria dei coloni che la tracciarono. Per loro, quel paesaggio traeva significato dal «nostro amato paese natale», per quanto lontano fosse.

Per i diné, invece, ogni tratto del paesaggio era saturo di significato.

Barboncito Barboncito, un capo diné vissuto a metà Ottocento, una volta spiegò l’attaccamento del suo popolo alla terra con queste parole: «quando i navajo vennero al mondo ci vennero indicati quattro monti e quattro fiumi entro i quali dovevamo vivere, quello sarebbe stato il nostro paese, e ci fu donato dalla prima donna della tribù navajo».

Simili racconti, e le configurazioni geografiche cui sono legati, costituiscono una sorta di scrittura sacra per i navajo: i monti sono le loro cattedrali;

le rocce e i torrenti sono l’equivalente delle vetrate istoriate.

Eppure il loro attaccamento alla terra d’origine non impedì che venissero allontanati, nel 1864, dal colonnello Kit Carson e dall’esercito degli Stati Uniti. Bruciando le riserve di cibo, tagliando gli alberi da frutto e sterminando il bestiame, Carson e i suoi soldati sconfissero i diné azzerando la loro rete di sostentamento. Impoveriti e inermi, migliaia di diné furono condotti a tappe forzate a Bosque Redondo in New Mexico, una zona arida dove non cresceva nulla. Morirono a centinaia durante la marcia, e a migliaia durante la prigionia.

Anni dopo, quando ai diné fu infine concesso di far ritorno in una parte del loro territorio ancestrale, uno dei loro capi letteralmente bramava interloquire con il suolo: «Avevamo il desiderio» disse «di parlare alla terra, tanto l’amavamo».

 

da: Amitav Ghosh, La maledizione della noce moscata, ed. Neri Pozza 2022, pagg. 58-59

AFFRANCATI DALLA TERRA?

December 3rd, 2023 by Pabuda

(…) dopotutto, ciò che accadde nelle isole Banda non fu che un episodio nel processo di colonizzazione, allora in corso su scala assai più vasta dall’altra parte della Terra, nelle Americhe. Si potrebbe dire che il XXI secolo non ha alcuna somiglianza con l’epoca remota in cui le piante e la materia vegetale potevano decidere i destino degli esseri umani. L’era moderna, lo si ripete spesso, ha affrancato l’umanità dalla Terra, sospingendola in una era di progresso in cui i manufatti hanno la priorità sui prodotti naturali. Il problema è che ciò non corrisponde al vero. Oggi siamo addirittura più dipendenti dalla materia vegetale di quanto lo fossimo trecento, o cinquecento, o perfino cinquemila anni fa, e non solo per il cibo. Gran parte degli esseri umani dipendono completamente dall’energia che viene dal carbonio sepolto nelle viscere della terra – e cosa sono il carbone, il petrolio e il gas naturale se non forme fossilizzate di materia vegetale?

(da: Amitav Ghosh, La maledizione della noce moscata, ed. Neri Pozza 2022, pagg. 27 e 28)

MAPPA ISOLE BANDA

BRUCIARE TUTTO

December 2nd, 2023 by Pabuda

(…) non è dato sapere come si svolsero gli eventi di quella fatidica settimana nelle Banda, ma una frase nella risoluzione del Consiglio [della Compagnia olandese delle Indie orientali], «bruciare ovunque le loro abitazioni», ci fornisce una chiave. Fa pensare alla tattica di incendiare e radere al suolo i villaggi contadini largamente impiegata durante la Guerra dei Trent’anni, che infuriava allora in Olanda. Brandschatting, in olandese, era la tattica militare più temuta dagli agricoltori della regione.   Pequot_war

Una percentuale molto consistente – da un quarto a poco meno di un terzo – dei soldati che combatterono nei paesi bassi durante la guerra erano mercenari inglesi.

In seguito molti andarono a combattere in America, e portarono con sé il Brandschatting, servendosene per eliminare intere tribù. Gli attacchi incendiari erano all’ordine del giorno, per esempio, nella guerra del 1636-1638 fra i coloni del New England e i pequot, una tribù algonchina di quello che ora è il Connecticut. Quel conflitto è stato descritto come

la prima guerra deliberatamente genocida combattuta dagli inglesi in Nordamerica.

Le isole Banda sono all’altro capo del pianeta, ma nel Seicento i due luoghi erano, di fatto, strettamente connessi, in quanto poli estremi dell’impero marittimo olandese. Sebbene gli olandesi non abbiano avuto alcun ruolo nella guerra contro i pequot, il teatro del massacro più sanguinoso – Mystic, in Connecticut – si trovava proprio al confine con la Nuova Olanda, la colonia olandese il cui centro era New Amsterdam, sull’isola di Manhattan.

(…)

Dar loro un nuovo nome era uno dei principali strumenti con cui i colonialisti cancellavano il precedente significato dei territori conquistati. Nel New England, poco dopo aver sterminato i pequot, i puritani si dedicarono, come scrive John Mason, a farne sparire «il ricordo dalla Terra» cancellando il nome della tribù. A tale scopo, l’Assemblea generale del Connecticut decise che ai sopravvissuti sarebbe stato proibito dirsi pequot; che il fiume Pequot si sarebbe chiamato Thames (Tamigi); e che il villaggio conosciuto come Pequot sarebbe stato ribattezzato New London, «in ricordo» dichiaravano i legislatori «della capitale del nostro amato paese natale».

 

(da: Amitav Ghosh, La maledizione della noce moscata, ed. Neri Pozza 2022, pagg. 31 e segg.)