V. SERGE: MEMORIA DI MONDI PERDUTI

In ricordo di Vladimir Kibalchich (1920-2005), meglio conosciuto come Vlady, che dipinse le ossessioni del padre, Victor Kibalchich (1890-1947), meglio conosciuto come Victor Serge.     COVER CARNETS FRA

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LE RADICI LIBERTARIE

Scrittore francese di sangue e russo di spirito, romanziere, poeta, storico, giornalista e traduttore, Victor-Napoleon Lvovich Kibalchich – alias Victor Serge, Le Rétif, Le Masque, Ralph, R. Albert, Victor Stern, Victor Klein, Alexis Berlowsky, Sergo, Siegfried Gottlieb, V. Poderewski e qualche altro pseudonimo – nacque in esilio a Bruxelles, il 30 dicembre 1890, e morì, sempre in esilio, a Città  del Messico, il 17 novembre 1947. Visse il mondo ipocrita della Belle époque, l’esaltazione comunista degli anni Venti e l’incubo totalitario della “mezzanotte del secolo”. Attraversò le correnti più importanti del movimento operaio: il socialismo riformista, il comunismo anarchico, l’individualismo, l’anarcosindacalismo, il bolscevismo e il trotskismo, senza mai abbandonare una spiccata sensibilità libertaria. Trascorse una decina d’anni di prigionia in diversi Paesi, partecipò a tre rivoluzioni – la spagnola (1917), la russa (1919-20) e la tedesca (1923) – e fu attivo anche in Belgio, Francia, Austria e Messico. Sopravvisse al GULag e alla barbarie nazista, e fu tra i primi a qualificare l’URSS come un regime totalitario. Autore di culto, benché quasi sconosciuto al grande pubblico, non sviluppò un sistema dottrinale né lasciò una scuola di pensiero. Non fu neppure un intellettuale nel senso tradizionale; in ogni tappa critica, cercò di dare alle esigenze dello spirito uno sbocco nell’azione. La sua attualità  risiede nella riflessione traboccante, letteraria e poetica ancor più che teorica, sulla tragedia di una rivoluzione che divora se stessa. Nelle centinaia di pagine che dedicò a questo tema, mantenne la freddezza dell’analista distaccato conservando, al contempo, la passione militante e la certezza di un avvenire migliore. E’ impossibile avvicinarsi allìopera di Victor Serge senza evocare le sue vicende umane. Nato nel seno di una famiglia poverissima, cominciò a guadagnarsi la vita a quindici anni. Fu, in ordine successivo, apprendista fotografo, fattorino, gasista, disegnatore tecnico, tipografo, traduttore, giornalista e correttore di bozze. Un lontano parente, il chimico Nikolai Kibalchich, era stato lìesperto in esplosivi della Narodnaia Volia (Volontà  del Popolo), la famosa organizzazione rivoluzionaria erede del populismo, che vedeva nella comune rurale russa (il mir) la possibilità  di costruire un socialismo contadino. In casa Kibalchich, la poesia sostituiva la preghiera e si narravano storie di attentati, processi e fughe dalla Siberia, in un’atmosfera analoga a quella dei romanzi di Dostoevskij, Cernysevskij e Turgenev. Nei tanti alloggi di fortuna, poteva mancare il pane, ma vi era sempre un samovar fumante, libri in varie lingue e foto di vittime della repressione. La famiglia sopravviveva a stento: Raoul-Albert, il fratellino minore, morì di fame e, anni dopo, la madre Vera finì stroncata dalla tubercolosi, la malattia dei poveri. Da quei genitori atipici che lo colmarono d’affetto, senza mandarlo a scuola, Victor ereditò il raro dono della coscienza sociale, un’insaziabile curiosità  intellettuale e una grande indipendenza di spirito. Il padre Leonid, che si rifaceva all’evoluzionismo di Herbert Spencer, trasmise al figlio la cultura scientifica e materialista del suo tempo, mentre Vera, donna di grande sensibilità  e raffinatezza, lo iniziò alla poesia e alla letteratura universali. A ciò bisogna aggiungere un sapere fatto di biblioteche popolari, circoli di studio, pubblicazioni sindacali, feuilleton, opere di divulgazione scientifica e tutto l’arsenale caratteristico della cultura popolare dell’epoca. Le prime esperienze militanti, descritte all’inizio delle Memorie, sono legate all’amicizia con alcuni giovani proletari insieme ai quali aderì al Partito Operaio Belga (POB), entrando però ben presto in conflitto con gli interessi meschini che vi regnavano. La lettura di Ai giovani di Kropotkin li spinse a cercare contatti con il movimento anarchico e in particolare con la colonia libertaria L’Expérience, a Stockel, nei pressi di Bruxelles. E’ in questo ambiente che Victor maturò quella sensibilità  libertaria che lo avrebbe accompagnato per il resto dei suoi giorni. L’anarchismo lo conquistò perché, a differenza del socialismo, esigeva l’accordo tra gli atti e le parole. Parigi lo attraeva. Non la Parigi degl’intellettuali e del glamour, ma la Parigi della Comune, la capitale delle rivoluzioni europee. Vi arrivò non ancora ventenne, trovando impiego come disegnatore industriale e si unì ad Anna Henriette Estorges, alias Rirette Maitrejean, giovane collaboratrice de L’anarchie (con la “a” minuscola), il giornale fondato da Albert Libertad che proclamava un individualismo radicale, nemico non solo del vecchio militantismo sacrificale, ma anche del nascente sindacalismo rivoluzionario. Victor pubblicava articoli incendiari sotto lo pseudonimo di Le Rétif (il refrattario) affermando che per fare la rivoluzione non è sufficiente essere sfruttati, bisogna rifiutare coscientemente la servitù volontaria. Nel frattempo, alcuni suoi amici avevano deciso di passare all’azione. Le Rétif difendeva la legittimità  della rivolta, ma si opponeva alla violenza cieca e risentita. L’arrivo a Parigi del meccanico lionese Jules Bonnot segnòò l’inizio di una stagione di follia eroica. Il dramma ebbe inizio il 21 dicembre 1911 con la rapina alla Société Générale e terminò qualche mese dopo con la morte in combattimento di Bonnot e di alcuni suoi sodali, la ghigliottina per altri, la condanna ai lavori forzati per altri ancora… Victor fu arrestato il 31 gennaio 1912 con l’accusa iniziale di ricettazione d’armi. Al processo, cercarono di presentarlo come il “cervello” della banda. Era una falsità  e la manovra fallì; nondimeno fu condannato a cinque anni di prigione, che avrebbe scontato fino all’ultimo giorno. La sua colpa? Non volersi trasformare in delatore.

UN BOLSCEVICO AFFATTO PARTICOLARE

Alla scarcerazione, il 31 gennaio 1917, Le Rétif venne espulso dalla Francia e si rifugiò a Barcellona, dove lavorò come tipografo. Si separò da Rirette e si avvicinò alla Confederacion Nacional del Trabajo (CNT), di tendenza anarcosindacalista, partecipando fra l’altro all’organizzazione della fallita insurrezione di luglio. Incominciò a usare un nuovo pseudonimo, Victor Serge, e pubblicò sul giornale anarchico Tierra y Libertad una serie di articoli in cui cominciava a prendere le distanze da Nietzsche e, implicitamente, dall’individualismo.

La Rivoluzione russa lo chiamava. Rientrato clandestinamente in Francia, fu di nuovo arrestato e internato per diciotto mesi nel campo di concentramento di Précigné, dove creò un gruppo bolscevizzante. Nel gennaio 1919 fu scambiato, insieme ad altri reclusi, con alcuni ufficiali francesi fatti prigionieri in URSS. Sulla nave conobbe la sua futura compagna, Liuba Russakova, anche lei in viaggio per la “terra promessa”. A Pietrogrado, capitale della fame, del freddo e della resistenza, fu ricevuto da Zinov’ev e incontrò Maksim Gor’kij, il quale gli disse che i bolscevichi erano ubriachi di potere: “Il commissario del partito è allo stesso tempo poliziotto, censore e vescovo”. Victor ne rimase scioccato, però decise di gettarsi egualmente nella mischia. Benché continuasse a considerarsi anarchico, aderì al Partito bolscevico, partecipò alla fondazione dell’Internazionale Comunista e ne organizzò il primo servizio stampa. E’ vero che commise molti errori: approvava la dittatura sul proletariato attuata dai bolscevichi e accusava gli anarchici russi di essersi fatti travolgere dagli avvenimenti; non rinnegava però, né mai lo avrebbe fatto, il suo passato; pensava che la Rivoluzione russa avesse cambiato i termini del confronto tra “autoritari” e “libertari” e che, di fronte alla crisi del movimento libertario organizzato, i bolscevichi fossero diventati i veri interpreti della volontà  rivoluzionaria delle masse. Oggi sappiamo che si sbagliava; allora fu un abbaglio di molti rivoluzionari, anche anarchici. Allo scoppio della rivolta di Kronstadt (1921), “con molte esitazioni e un’angoscia inesprimibile”, decise di allinearsi con il partito, cosa che, non senza ragione, il movimento anarchico non avrebbe mai cessato di rimproverargli. A ogni modo, la sua adesione non fu mai incondizionata e non durò a lungo. Le Memorie mostrano un Serge perfettamente consapevole dei germi autoritari che il regime sovietico incubava, ma convinto della possibilità  di riformarlo. Viveva il sentimento di un doppio dovere: da un lato lottare contro i nemici esterni della rivoluzione, le potenze occidentali e i generali bianchi, e dall’altro battersi contro quelli interni, la burocrazia e il pensiero unico. Alla fine, scelse di partire con moglie e figlio per la Germania con l’incarico di giornalista e agente del Comintern, pensando che l’unica possibilità  di salvare la rivoluzione russa fosse affrettare quella europea. Dopo la sanguinosa sconfitta del Partito Comunista Tedesco (1923), fuggì a Vienna, dove intraprese lo studio del marxismo, che in realtà  non conosceva, e della psicoanalisi, senza tralasciare il lavoro clandestino. Nella vecchia capitale dell’Impero austro-ungarico collaborò, fra gli altri, con Gramsci e con Lukacs. Di quest’ultimo, elogiò le conoscenze enciclopediche, definendo però totalitaria la sua interpretazione del marxismo. Nel frattempo, Stalin era diventato il numero uno del Cremlino e al bolscevismo di Lenin che, almeno in teoria, ammetteva il dissenso, faceva seguito un regime poliziesco basato sul terrore, l’intrigo e la menzogna. Serge aveva la vocazione del dissidente, però non volle rompere radicalmente con il bolscevismo. Quando, nel 1925, rientrò in URSS chiese a Trotsky se l’opposizione fosse disposta a distruggere l’apparato burocratico, in caso di vittoria: “Neanche per sogno, – rispose il fondatore dell’Armata Rossa. – L’apparato bisogna conquistarlo e servirsene! -. Si unì, cionondimeno, all’Opposizione di Sinistra (il termine “trotskismo” è un’invenzione di Stalin), ancora una volta perché convinto della necessità  di dare battaglia dall’interno. Collaborò con il Commissariato agli affari esteri, nel quale lavorava anche Andreu Nin, e diffuse le tesi trotskiste sulla stampa francese. Partecipò, il 7 novembre 1927, all’ultima manifestazione pubblica dell’Opposizione e, il 16, ai funerali del dirigente bolscevico Adolph Joffe, suicidatosi in segno di protesta contro l’esclusione di Trotsky dal partito.

CRONISTA DEL DISASTRO SOVIETICO

Il destino di Serge era ormai segnato. Costantemente sorvegliato dalla polizia segreta, il nostro ridusse al minimo l’attività  politica. Viveva di traduzioni malpagate, cercando di proteggere il figlio e la moglie che, a poco a poco, stava perdendo la ragione. Un giorno, mentre si riprendeva da una grave malattia, ebbe una visione. A un tratto, le sue attività  precedenti gli parvero futili e sentì¬ l’urgenza di scrivere romanzi, non tanto per parlare di sé, quanto per dar voce agli uomini straordinari che aveva conosciuto. “Concepisco la letteratura come un mezzo di espressione e di comunione tra gli esseri umani: un mezzo particolarmente potente agli occhi di coloro i quali vogliono trasformare la società . Dire ciò che si è, ciò che si vuole, ciò che si vive, ciò per cui si soffre e si lotta, ciò che si conquista. Bisogna dunque far parte di chi lotta, soffre, cade, conquista”. Altrove aggiunge: “E’ importante lasciare una testimonianza su questi tempi; il testimone passa, però può succedere che la testimonianza rimanga”. Conobbe allora una doppia risurrezione: fisica e spirituale. Tutto lo spingeva alla letteratura: la formazione familiare, l’enorme talento, una vita romanzesca. Il momento non poteva essere peggiore: i grandi scrittori tacevano, si toglievano la vita (Esenin, Majakovskij) o erano imprigionati. Serge sapeva che in Unione Sovietica non gli avrebbero pubblicato neppure una riga, ma poteva scrivere in francese e mandare i suoi testi agli amici di Parigi che avrebbero trovato la maniera di diffonderli. La sua produzione fu prodigiosa. L’originalità  di questa narrativa consisteva nel rompere i canoni dell’autobiografia tradizionale, incentrata sull’epopea dell’individuo, raccontando l’io collettivo che emerge dalle tormente rivoluzionarie, senza temere di esibirne le contraddizioni: “Ricordare, fissare, comprendere, interpretare, ricreare la vita. Non possediamo che una vita, ma questa contiene molti destini possibili. Non è unica nel senso che si confonde con innumerevoli radici, affinità  e contaminazioni (la maggior parte delle quali non si possono esprimere razionalmente) con altri uomini, la terra, gli esseri, il Tutto. Scrivere diventa allora la ricerca di una poli-personalità , una maniera di vivere molti destini, di penetrare l’altro, di comunicare con lui”. L’idea di “poli-personalità” è la chiave di volta (…).

Serge riesce a mettere in scena la tragedia rivoluzionaria in tutta la sua potenza, ma anche nella sua crudezza e senza camuffamenti. E tuttavia non è un Autore disincantato. E’ quindi distante da un Koestler e da un Malraux, prossimo piuttosto a un Orwell e a un Silone. E’ un Autore colto e allo stesso tempo accessibile. Nelle sue pagine, oltre all’influenza dei grandi romanzieri russi, di Dostoevskij in primo luogo, e di Vallès, il cantore della Comune, si percepiscono gli echi di Joyce, Dos Passos e Proust, come anche della “letteratura proletaria”, la corrente lanciata negli anni Venti da Henry Poulaille. Frattanto, la situazione in URSS precipitava. L’8 marzo 1933, Victor Serge fu nuovamente arrestato e, dopo tre mesi alla Lubjanka, deportato a Orenburg, una città  prossima agli Urali, anticamera politico-geografica del GULag. Accompagnato dal figlio Vlady e da Liuba (la quale presto tornerà  a Leningrado per dare alla luce la seconda figlia, Jeannine, che oggi vive a Città del Messico), egli si unì a una confraternita di proscritti, tra i quali vigevano rapporti di solidarietà  e comunione spirituale. Nell’arcipelago totalitario, Orenburg era un’isola tranquilla: condizioni di precarietà  e penuria (Vlady si ammalò di scorbuto), ma poche persecuzioni. Nel 1935, Serge ricevette la visita di Francesco Ghezzi, un militante dell’Unione Sindacale Italiana (USI) fuggito in Russia, che percorse duemila chilometri per informarlo sul “Congresso degli scrittori in difesa della cultura” parigino. In quella sede, con grande scandalo della delegazione sovietica, alcuni valorosi, tra cui Gaetano Salvemini, sollevarono la questione della sua libertà. Grazie anche all’interessamento del più noto “compagno di strada” dello stalinismo, lo scrittore Romain Rolland, i Kibalchich poterono lasciare l’Unione Sovietica. Nel loro lungo viaggio, a Mosca, incrociarono Ghezzi, ancora libero, benché per poco. Infine, il 17 aprile 1936, dopo aver attraversato Polonia e Germania, arrivarono a Bruxelles, accolti da Nicolas Lazarevitch, anch’egli scampato alle prigioni sovietiche. Victor riuscì, con molta difficoltà , ad aprirsi uno spazio sulle pagine di un quotidiano socialista di Liegi, La Wallonie, dove tra il giugno 1936 e il maggio 1940 pubblicò oltre 200 articoli, scrivendo di Unione Sovietica, Spagna, antisemitismo, Germania, Austria, solidarietà  internazionale, arte e di tanti altri argomenti che testimoniano della vastità dei suoi interessi. Riallacciò i rapporti epistolari con Trotsky, allora esiliato in Norvegia; tuttavia, per quanto serbasse profondi sentimenti di ammirazione e affetto nei suoi confronti, era lontanissimo dal suo dogmatismo. Inevitabile, la rottura si produsse in occasione del dibattito sul massacro di Kronstadt, che il nostro Autore definiva un tragico errore e che il fondatore dell’Armata Rossa rivendicava invece senza esitazioni. Il 19 luglio 1936 scoppiò la Rivoluzione spagnola, presto seguita dal primo dei “grandi processi” di Mosca, destinato a terminare con l’esecuzione dei “sedici”, tra i quali Zinov’ev e Kamenev. In dicembre, Serge divenne corrispondente dell’organo del POUM, La Batalla, denunciando dalle sue colonne il pericolo mortale rappresentato dall’intervento sovietico in Spagna. Apertamente boicottato dalla stampa comunista, messo al bando da quella trotskista, considerato con sospetto da quella anarchica, si trovava adesso più solo che mai. Non smise di lottare. Collaborò intensamente con il “Comité pour l’Enquéte sur le procés de Moscou” recandosi clandestinamente a Parigi e, per via epistolare, con la “Commissione Dewey”, che si riuniva in Messico per difendere Trotsky dall’accusa, tanto infamante quanto assurda, di essere un agente del nazismo. In meno di un anno, pubblicò, tre libri: 16 fusillés à Moscou, De Lenine à  Staline e Destin d’une révolution. Il primo è un esame dettagliato dei documenti ufficiali del processo, che ne smonta il meccanismo. Il secondo presenta uno schizzo storico dei vent’anni trascorsi dall’Ottobre rosso chiarendo che, delle conquiste rivoluzionarie, non rimaneva ormai più nulla. Il terzo è uno studio della vita sociale, economica e culturale sovietica, nonché una delle prime descrizioni dell’universo concentrazionario.    Serge-CARNETS

(da: Claudio Albertani, V.S. MEMORIA DI MONDI PERDUTI, foglio volante a cura di Calusca City Lights, f.i.p., Milano, 3 maggio 2012; conservato nell’Archivio Primo Moroni; Claudio Albertani ha curato la raccolta di “appunti messicani” di Victor Serge – che rappresentano una sorta di prosecuzione di Memorie di un rivoluzionario – pubblicati nel 2012 in Francia dalle edizioni Agone nel volume Carnets 1936-1947 e nel 2014 in Italia da Roberto Massari editore col medesimo titolo)

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