TRE “BEI” PERSONAGGI…

Quel che succede, per ora, lo tengo per me. Però, tre personaggi di Facce Nere li posso sputtanare in anticipo. Se lo meritano. Sono (nell’invenzione pabudesca) dei quadri – di diverso livello – del Partito Comunista Romeno descritti in un’epoca e in un momento che Pabuda preferisce ancora non precisare… 1944-11-23_photo-da091_miners-and-railroad-workers-petrosani-gheorghe-gheorghiu-dej

Tra tutti, per la mole e per la camicia a fiori, spiccava uno che si faceva chiamare “Tung” (nome di battaglia derivato da tungsteno, non da Mao Tse Tung: non era così coraggioso e irriverente… al contrario). Primo vice-Segretario generale aggiunto distrettuale e Presidente della Commissione Centrale di Controllo a livello sotto-distrettuale. “Tung” – per quanto poteva ricordare Marius, che stava nel partito da una dozzina d’anni – era sempre stato repellente: per l’aspetto e per certe disgustose abitudini. Oltre alle posizioni nel partito guadagnate con una paziente abilità manovriera pari alla crudeltà verso i sottoposti e al servilismo nei confronti dei superiori, aveva anche un incarico di rilievo non specificato nella Securitate distrettuale (ufficialmente non di dominio pubblico, benché noto – ufficiosamente – anche ai sassi più distratti). Un ignorante inquisitore di provincia, all’occasione aguzzino capo. Un metro e ottantacinque di supponenza per centotrenta chili di volgare stronzaggine. Sosteneva d’aver sempre caldo e, per questo, in qualsiasi stagione indossava enormi camicie di simil-terital a maniche corte, mettendo in mostra i prosciuttoni che teneva al posto delle braccia. Quest’abitudine lo faceva sembrare un po’ un turista tedesco in gita. Un’involontaria trappola per i suoi interlocutori: il mangia-crauti in vacanza ispira simpatia. Anche la risata frequente, grassa, gioviale, cameratesca – sulle prime – aveva tratto in inganno più d’uno. Invece, il fissato col tungsteno era tecnicamente, umanamente, politicamente, un lurido stronzo: infido e sadico. Secondo i suoi non pochi avversari e le sue vittime: un tipico esemplare di fascista “rosso”. Durante le riunioni, comunque, faceva schifo pure ai suoi amici e accoliti. Per forza: ogni volta che c’era un problema un po’ più complesso del solito da affrontare, portava una delle sue manone obese davanti alla boccaccia e fingeva di strofinare il labbro superiore scuotendo leggermente la testa – come uno che pensa, rimugina, che si spreme le meningi – ma in un lampo ficcava il grosso dito indice nella narice destra del suo naso camuso… e cominciava ravanare con energia cavandone quel che si può cavare da lì: non certo grandi idee; quando s’annoiava, invece, buttava indietro la testa, allungava il braccio destro, afferrava la prima matita a portata di mano, anche non sua, e, tenendola con la delicatezza d’un romantico direttore d’orchestra, l’avvicinava alla testa per introdurne l’estremità non appuntita nel padiglione auricolare, dedicandosi anche qui – con maggior prudenza  ma non meno scrupolo – alla ricerca e all’estrazione d’un qualcosa.

Difficile immaginare come un personaggio del genere, da giovane, abbia potuto partecipare alla propaganda sovversiva clandestina tra i minatori e i pecorai della Valle dello Jiu, ai tempi della dittatura filo-nazi di Antonescu.

Poi c’era un rispettato e riverito compagno dirigente di vecchia data, noto come “Il Dottore”. Lui s’era accontentato d’un soprannome molto banale e piuttosto inutile ai fini della dissimulazione dell’identità. Il compagno Laurentiu Parvan, difatti, era davvero il dottore: medico di zona al quale il ministero della Sanità aveva affidato – oltre alla direzione del pronto soccorso di Petrosani e di una rete di piccoli ambulatori e dispensari nella zona mineraria a maggior densità di impianti estrattivi – la diretta e quotidiana supervisione della salute dei minatori e dei loro familiari (con relativi studi epidemiologici e statistiche riassuntive da fornire bimestralmente ai funzionari superiori). Detto altrimenti: la cura di tutta la popolazione della valle. Un lavoro da schiattare in una settimana. Il compagno dottore Laurentiu Parvan era lì e si faceva in quattro da dodici anni abbondanti. Era anche lui piuttosto in carne, ma molto meno grosso di “Tung” e assolutamente più presentabile, quasi elegante nei modi e nel vestire, decisamente demodé. Di lui Marius aveva sempre pensato: “Se l’informazione è potere, quest’uomo ne ha troppo. È al corrente, per il suo mestiere, dei cazzi di tutti qui in valle. E conosce tutte le beghe interne al partito, i gruppi, le amicizie, i raggruppamenti e le camarille, le carriere e le ambizioni, i trascorsi e gli scheletri nell’armadio… roba utilissima per un membro della segreteria, che ha voce in capitolo in moltissime decisioni vitali”. Tutto vero. Ma anche più complicato: la coscienza del dottore per lungo tempo aveva oscillato come un pendolo tra la fedeltà al giuramento di Ippocrate e quella verso il partito e i suoi capi. Una situazione psicologicamente insostenibile. L’aveva sanata soltanto prendendo una decisione draconiana e bizzarra, un codice di comportamento al quale s’è attenuto con rigore inflessibile pur di trovare e mantenere un proprio equilibrio: aggrapparsi agli estremi. Da un lato – per la superiore causa della costruzione comunista e nazionale – non si fece mai scrupolo di mettere a conoscenza le strutture dirigenti del partito (e, s’era il caso, anche i “referenti” della Securitate) di tutte – ma proprio tutte! – le informazioni di cui veniva a conoscenza grazie alla sua attività professionale; da un altro, si impose – riuscendovi – di rispondere a qualsiasi richiesta di intervento da parte dei suoi pazienti, ovunque, ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette, 365 giorni l’anno, qualunque fosse la natura e la gravità del malanno. Tutti nella valle, anche nei paesini più sperduti e nelle periferie meno raccomandabili, sapevano di poter contare su di lui. Contattandolo in qualche maniera, facendolo chiamare, prima o poi sarebbe arrivato, colla sua vecchia borsa zeppa di strumenti sempre miracolosamente sterilizzati e medicinali racimolati grazie a dei contatti suoi al ministero. Di conseguenza, dormiva due o tre ore a notte, non prendeva mai ferie e metteva l’attività medica davanti a qualsiasi altro impegno, comprese le riunioni della segreteria politica (cosa rarissima in quell’ambiente). Insomma, un soggetto particolare. Marius – come molti altri – lo rispettava ma, soprattutto, lo temeva.

Il terzo componente della Commissione, ch’era pure il più giovane, amava farsi chiamare “Scacco Matto”. O – più probabilmente –, facendo buon viso a cattivo gioco, sopportava. Col suo solito sorriso di circostanza stampato in faccia, accettava in silenzio il nomignolo affibbiatogli dai capi. Per quieto vivere.  “Scacco”: niente di molto fantasioso: il compagno Ionut era uno scacchista entusiasta, non fortissimo ma iper-competitivo, che poteva vantare discreti piazzamenti in tornei regionali, nazionali e financo internazionali (sebbene nei limiti delle competizioni a livello balcanico). “Matto”: sì, era una specie di pazzo, più precisamente un disadattato pieno di manie e con capacità mnemoniche impressionanti apparentemente inutili (da ragazzino, mentre i suoi coetanei cominciavano ad apprezzare i piaceri della masturbazione solitaria o in compagnia, lui, più che altro, godeva memorizzando le classifiche e i punteggi d’un’infinità di tornei amatoriali di scacchi, dama italiana, dama polacca – o “internazionale” –, dama cinese, domino e mah-jong a livello regionale, distrettuale e nazionale). Per campare s’era aggiudicato un posto – tranquillo e blindato – di tecnico chimico presso la compagnia carbonifera regionale. Sui trent’anni, nonostante l’aspetto passabile e la posizione interessante negli organigrammi del partito e del combinat minerario, era scapolo. Alle sue spalle si vociferava: un misogino atterrito dal mondo femminile. Ma questo a Marius non interessava. Semmai, lo preoccupava sapere come e perché era stato cooptato in età relativamente precoce nella segreteria regionale del partito: per i suoi meriti di spione: una spia che più spia non si può. I dirigenti se lo tenevano caro perché serve sempre un informatore così coscienzioso e bastardo; ma lo temevano un po’ perché spiava anche loro e sicuramente aveva collezionato numerosi dossier personali. Politicamente era nullo: privo di convinzioni proprie si adeguava sempre all’idea prevalente tra i superiori, illudendosi, forse, d’essere lui stesso un capo. Solo perché “vinceva” sempre, badando con attenzione di votare invariabilmente con la maggioranza. Anche fisicamente non si faceva notare, né attraendo né respingendo: un fisico normale – né magro né grasso, né alto né basso, né tonico né fiacco. Portava in giro una faccia così comune che non te la ricorderesti mai. Era fanatico dei registri, delle tabelle e delle statistiche: un’inclinazione naturale che gli tornava utile, oltre che nel mestiere di chimico minerario, della sua “attività politica” di delatore metodico e compulsivo.

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(La foto riprodotta qui sopra era esposta, ben incorniciata, nella stanza dove, secondo Pabuda, si trovano riuniti i tre personaggi descritti. Risale al 1944 e ritrae tra gli operai della ferrovia e una delegazione di minatori comunisti, il Segretario generale del Partito Operaio Romeno, Gheorghe Gheorghiu-Dej, predecessore di Ceausescu, che mutò la denominazione dell’organizzazione in Partito Comunista Romeno)

 

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