STEVIE, FRATELLO

Stevie Wonder non era in grado di vedere. Era cieco. Cavolo, la parola cieco faceva quasi parte del suo nome. Fin dalla prima volta in cui il suo nome fu mandato in onda e il titolo del brano venne etichettato, fu bollato come “Stevie Wonder, il Ragazzino Cieco”. Sapevo che faceva tutto parte di un piano, del vendere Stevie al pubblico, ma provavo ancora un po’ di solidarietà per il fratello, perché veniva messo per iscritto a caratteri cubitali qualcosa che per lui probabilmente non era necessario sentire.  Stevie-Wonder-harmonica

Non avevo mai sentito dire “Ray Charles il cieco” o “José Feliciano il cieco”. La precisazione non poteva essere dovuta al fatto che Stevie suonasse uno strumento, perché Ray charles suonava il pianoforte e José Feliciano la chitarra. Che cavolo!

C’era stato un periodo in cui i fratelli e le sorelle adottarono quelli che consideravano nomi religiosi. Cassius Clay diventò Muhammad Alì. Bobby Moore diventò Ahmad Rashad. Ai vecchi tempi tipi con altri nomi diventarono Rock Hudson e John Wayne. Malcolm Little diventò Malcolm X. Ma Bell diventò Nine X. Ma Stevie…

Stevie cominciò portandosi dietro un tris di alias. Era noto come “Little Stevie Wonder” quando il primo brano da top 10 trasformò le onde radio americane nel suo maremoto personale. Se all’epoca fossi stato anch’io nei paraggi con un microfono in mano, si sarebbe trattato di un’onda da prima pagina. Ma poiché il suo vero nome era Stevieland Morris, lui in realtà cavalcava le onde di una tavola da surf immaginaria. Forse era “piccolo” quando fu notato per la prima volta dai discografici a un qualche show in quel della città dei motori, ma quel periodo in cui suonava Fingertips and American Bandstand, si avvicinava chiaramente al metro e ottantatré e dava l’impressione di poter schiacciare a canestro Dick Clark.

Ebbi l’occasione di vedere per la prima volta Stevie Wonder all’Apollo Theatre sulla Centoventicinquesima Strada quando avevo quindici anni e vivevo nel Bronx. Il giovanotto al centro del palco aveva un microfono e un’armonica in mano, mentre incoraggiava il pubblico a battere le mani era alto quanto me, e solo gli occhiali scuri che gli nascondevano gli occhi mi ricordavano che quel suo sorriso da cento watt, dentro i riflettori luminosi, era offerto a un’oscurità che iniziava dietro le palpebre e non semplicemente oltre le luci della ribalta. Il ragazzo sapeva suonare sul serio e io speravo che la parte “cieco” della sua presentazione sarebbe caduta anziché rimanergli appiccicata addosso come nome d’arte, come Blind Lemon Jefferson, come se il caro, vecchio Stevie Wonder fosse un nome da dilettante.

Stevie continuò a crescere in ogni direzione. Alla sua altezza definitiva da adulto di oltre un metro e ottantatré, ma anche agli occhi del pubblico, come un meraviglioso talento musicale. Un tastierista eccezionale, un percussionista entusiasta, un compositore fantasioso e stimolante sia di esaltanti pezzi dance che di ballad riflessive, melodie che si incollavano addosso e ritornavano portando nuove sensazioni. Diede prova della sua piena padronanza della teoria come compositore e arrangiatore con la colonna sonora per orchestra del film The Secret Life of Plants.

La struttura della voce e l’estensione rendevano ogni sua singola proposta in qualità di cantante una realizzazione unica e personale. Le sue canzoni venivano cantate da altri artisti ma non “rifatte”. Per tutti gli anni Sessanta e Sessanta continuò a essere molto apprezzato come attrazione e fu sempre richiestissimo.

(…) Sono contento che quando poi l’ho conosciuto – a metà degli anni Settanta – il fratello era semplicemente Stevie Wonder. O Stevie. Che aveva perso o gettato via la maggior parte deli inadatti aggettivi qualificativi che gli erano stati stesi addosso qua e là come orrende mani di pittura. Altrimenti avrei potuto trovarmi a trent’anni a dividere le locandine con “Little Blind Stevie Wonder”. Ma le cose si sistemarono.

(…) Ho sempre chiamato tutti “Fratello” e Stevie aveva i suoi personali nomignoli per le persone. Subito dopo il nostro primo incontro cominciò a chiamarmi “Ari-eete”, un nome fantastico perché sono dell’ariete. Incontrarlo mi riportò anche nel Bronx per i ricordi delle mie riflessioni sul primo Little Stevie” ed ero contento per lui. Per me si è trattato di una gioia privata aver sperimentato quell’affinità con il fratello per quasi tutta la vita. Senza mai fregarmene, né all’inizio né adesso, quando qualcuno poteva dire “sai, è cieco”.

(da: Gil Scott-Heron, L’ultima vacanza – A memoir, LiberAria ed., pagg. 27-29)

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Fingertips (Parts I & II) è qui: https://www.youtube.com/watch?v=k3ubgVjp3CY

ma in rete c’è un’ esibizione in cui Stevie sembra davvero little:

https://www.youtube.com/watch?v=2cSjOxqldFs

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Definition of a poet (intervista a Gil Scott-Heron, già anzianotto):

https://www.youtube.com/watch?v=gUrohNJWPyI

 

 

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