LA MORTE DEL JAZZ?

L’apparizione e il rapido sviluppo negli Stati Uniti della musica che è stata chiamata “Free Jazz” hanno provocato un vero trauma nel mondo della critica jazz. Per molti ascoltatori, come per gli stessi specialisti, questa musica mostrò subito qualcosa di “intollerabile”. Che turbasse è dir poco: fece letteralmente male. Dopo dieci anni, dopo Ornette Coleman, Cecil Taylor, Sun Ra, Albert Ayler, Archie Shepp, Don Cherry, Pharoah Sanders, l’Art Ensemble of Chicago…, la sua forza d’urto non è spenta. Anzi provoca ancora violente reazioni di rigetto, l’insulto, la derisione.  COVER-03
Se per un verso molti musicisti “free” hanno una intenzionale aggressività sonora, ciò non giustifica d’altro canto l’avversione che è stata loro riservata. È che la nuova musica infrangeva certe vecchie, buone tradizioni del jazz, che avevano i propri estimatori e avevano instaurato un certo numero di abitudini, di confortanti certezze. Contemporaneamente veniva compromessa una certa idea della funzione e della bellezza della musica: una concezione del godimento estetico e della fruizione culturale sorretta sin allora dall’ideologia dominante nella società capitalista, e contrassegnata, dunque, dal marchio della civiltà occidentale.
Non solo la nuova musica si formava e si suonava in base a norme estetiche e codici culturali diversi dai nostri, non solo trasgrediva la maggior parte delle regole considerate allora come specifiche del jazz, ma pretendeva testimoniare l’oppressione dei Neri americani, esprimere le loro rivolte, e anche svolgere un ruolo nella loro lotta rivoluzionaria. Insomma mescolava ciò che non si era mai supposto di poter mescolare: musica e politica.
Ciò era intollerabile per la critica, che si era data molto da fare per riuscire a far assurgere il jazz a rango di arte, ma non per concepire quest’arte fuori dai canoni estetici borghesi e dalle regole del consumo culturale occidentale.
Le regole stabilite, le definizioni collaudate da trent’anni di jazz (e di critica) non servivano più. Si sarebbe dovuto rivederle; ma il free jazz fu accolto con grida e fischi che non riuscivano a scuotere il “silenzio” della critica che, disorientata, sembrava anzi non avere più nulla da dire (salvo accusare i rarissimi difensori del free jazz di volere “la morte del jazz”).

(da: Philippe Carles e Jean-Louis Comolli, Free Jazz / Black Power, G. Einaudi editore 1971, pagg. 2-3)

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