PUAS

C’era anche Pepito, lì davanti casa, tra i ragazzini che facevano un chiasso indemoniato nella callecita di terra grigia. Era il bambino più piccolo delle due squadre che se le davano di santa ragione. Io, senza grandi risultati, cercavo di studiare le vecchie carte del catasto coloniale, seduto nel patio, e sbirciavo il panorama e l’umanità. Di fronte a me, oltre la terra battuta della strada, c’era un muro, grigio anche quello, costruito con un materiale indefinibile, lo stesso con cui pareva avessero costruito tutto in quel quartiere periferico della capitale. Un tempo era stato un pueblo joven, un accampamento abusivo di gente campagnola e montanara (“los serranos”, come dicono con un certo disprezzo i limegni) riversatasi in città in cerca di lavoro. Poi, via via che le capannucce, le baracchette s’erano trasformate in piccole case che la gente si costruiva da sé, San Juan aveva cambiato aspetto. Per molti anni non era arrivata l’acqua né la corrente elettrica, però s’era guadagnato la denominazione di “insediamento umano informale”. Ora, quell’enorme quartiere, mi dicono, è assurto alla dignità di “distrito”: anzi, è il distretto più popoloso del Perù. Molte delle strade e delle stradine sono state asfaltate e per i ragazzini c’è anche qualche campo da pallone. Per i loro genitori c’è pure un immenso ipermercato. Ma io capitai da quelle parti parecchio tempo fa e ricordo quel  muro grigio di fronte alla casa de “El Gacho”, che ci ospitava. Non sapevo cosa celasse: era alto e solido d’aspetto. Ma qualcuno, chissà quando, in quel muro aveva traforato un grosso buco, incastrandoci dentro un negozietto: l’unica macchia di colore in tutto quel grigio: le inferriate erano arancioni di antiruggine e le pubblicità della birra: blu e d’oro e rosse: la Cristal e la Cuzquena. Ma vendevano anche sigarette e aspirine, sciolte. Molto comodo: “Una sigaretta e un’aspirina, quant’è?”.

Dicevo di Pepito: una specie di pollicino rotolato direttamente giù dalle Ande. Uno dei suoi giochi preferiti consisteva nell’avvicinare gli altri mocciosi e, individuatone uno adatto, calarsi un po’ le braghette, tirar fuori il rubinetto e pisciare veloce come un lampo sulle scarpe del malcapitato. Per vendetta, tutti lo chiamavano Puas, e lui s’incazzava da matti. Era sveglio e captava al volo il contenuto subdolamente razzista di quel nomignolo. Oddio, non ci voleva una scienza! La sua testolina era ricoperta di capelli dritti e neri, ritti come gli aghi di un porcospino: puas, per l’appunto. Era piccoletto ma valeva un Perù intero. A pensarci bene, poi, non aveva niente a che vedere con un pollicino o con qualsiasi altro innocente personaggio delle favole. Sapeva troppo. Sulle ginocchia, tra le croste, portava incastonate preziose pietruzze che gli si erano conficcate lì per le cadute e i ruzzoloni su terre molto lontane.

Nelle tasche dei pantaloni Puas aveva sempre un po’ di terra rossa di una precisa località dell’altopiano. Non la lasciava seccare mai. Ogni tanto la tirava fuori, la guardava e l’annusava, appiccicata sui palmi aperti di entrambe le mani. Durante queste periodiche e scrupolose controllatine, ci sputava sopra e la impastava un po’. Così i palmi delle mani, come l’interno delle tasche, rimanevano sempre di color rosso. Puas, pur non sapendolo, sapeva che quel rosso terroso non era solo ricordo del ferro che impregnava le zolle dell’altopiano e che faceva speciali le patate. Sì, era il ferro ma anche il fuoco e il sangue che avevano a più riprese inseminato il cuore di Tahuantinsuyo, l’ombelico delle quattro grandi regioni governate dall’Inca. Molto in alto, molto lontano da Lima. Anche su quella piana sbilenca dove aveva giocato l’ultima volta, prima di partire. E quando era stato a vedere il nonno, prima che morisse. Era stato un viaggio lunghissimo e disgustoso per la nausea che gli provocavano le curve e la puzza di gasolio, in mezzo a tutta quella gente che affollava l’autobus. Lì dentro le cose e le persone e qualche bestia sembravano accatastate alla rinfusa. In verità, erano sapientemente pigiate, in modo che neppure un centimetro cubo dello spazio disponibile rimanesse inutilizzato. Puas occupava meno della metà di un sedile e se n’era rimasto rannicchiato, con le gambe piegate e la schiena premuta al finestrino. Non guardava fuori quasi mai: giocava coi suoi piccoli piedi. I piedi di Puas non puzzavano. Sporchi sì, ma non puzzolenti! Sporchissimi, ma senza odori cattivi. Era  una cosa importante. Puas non aveva scarpe. Portava sempre quei sandali aperti di gomma nera che sulla Sierra, in montagna, calzavano tutti. Prodotti di un artigianato non destinato ai turisti: suole ricavate da copertoni, fasce e cinghiette prodotte con robuste strisce tagliate da camere d’aria  d’una volta. Garantivano una presa perfetta su qualsiasi tipo di terreno. Consentivano di camminare per ore e ore, in salita e in discesa, ma anche di cimentarsi, come faceva il piccoletto coi capelli aguzzi, in improvvise accelerazioni o corse sostenute. Lasciavano il piede completamente scoperto, nudo. Eppure, i piedi chi li calzava non sentivano mai il freddo. Secondo il nonno di Puas era perché, con quel tipo di calzature, si ricoprivano, dopo i primi geloni, di un callo fortissimo, non solo sulle piante e i talloni, ma in tutti i punti delle estremità, addirittura tra un dito e l’altro e sul collo del piede, percorso da un reticolato di graffi. Puas aveva una teoria diversa. Secondo lui era lo sporco a proteggere i piedi dal freddo e da altre minacce. Così, aveva una gran cura dei suoi piedi sporchi. Si preoccupava che fossero ricoperti di sporco sempre nuovo.

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