LETTERA DEL SOLDATO K. VONNEGUT JR.

Da: soldato scelto K. Vonnegut jr.

12102964 Esercito degli Stati Uniti.

 

A:

Kurt Vonnegut,

Williams Creek,

Indianapolis, Indiana.                                                                                                         RICORDANDO L'APOCALISSE

 

Miei cari,

mi dicono che probabilmente nessuno vi ha informato che non sono mai stato “disperso in combattimento”. È anche probabile che non abbiate ricevuto nessuna delle lettere che ho scritto dalla Germania. Dunque, non mi resta altro da fare che darvi un mucchio di spiegazioni. E precisamente:

 

Sono prigioniero di guerra dal 19 dicembre 1944, quando la nostra divisione fu fatta a pezzi dall’ultimo attacco disperato di Hitler attraverso il Lussemburgo e il Belgio. Sette fanatiche divisioni di panzer ci hanno attaccato e isolato dal resto della Prima Armata di Hodges. Le altre divisioni americane ai nostri fianchi sono riuscite a sganciarsi: noi siamo stati costretti a restare a combattere. Le baionette sono poco efficaci contro i carri armati: abbiamo finito le munizioni, i viveri e i medicinali, e il numero delle nostre vittime ha superato quello di chi era ancora in grado di combattere; così, ci siamo arresi. Mi dicono che per questo la 106ma ha ricevuto una Citazione presidenziale e una Decorazione britannica da Montgomery, ma mi venga un accidente se ne valeva la pena. Io sono uno dei pochi che non sono stati feriti. E ringrazio Iddio per questo.

Dunque, i superuomini ci hanno fatto marciare, senza cibo, acqua e sonno, fino a Limberg, una distanza di circa cento chilometri, credo, dove siamo stati caricati e chiusi dentro, sessanta uomini per ogni carro merci piccolo, soffocante e non riscaldato. Non c’erano servizi igienici: il pavimento era coperto di sterco di vacca fresco. Per coricarsi non c’era posto per tutti. Metà dormivano mentre gli altri stavano in piedi. Abbiamo passato parecchi giorni, compreso il Natale, su quel binario morto di Limberg. La vigilia di Natale la Royal Air Force ha bombardato e mitragliato il treno, che era privo di contrassegni. Hanno ucciso circa centocinquanta di noi. Il giorno di Natale ci hanno dato un po’ d’acqua e ci hanno portato lentamente attraverso la Germania a un grande campo di prigionia a Mahlburg, a sud di Berlino. Ci hanno fatto uscire dai vagoni a Capodanno. I tedeschi, per spidocchiarci, ci hanno fatto fare una doccia bollente. Molti uomini sono morti nelle docce per lo choc dopo dieci giorni di fame, sete e assideramento. Ma io no.

Secondo la convenzione di Ginevra, ufficiali e sottufficiali non sono obbligati a lavorare quando vengono fatti prigionieri. Io sono, come sapete, un soldato semplice. Il 10 gennaio centocinquanta di questi esseri di seconda categoria sono stati inviati in un campo di lavoro a Dresda. Poiché parlo un po’ di tedesco, il oro capo ero io. Avevamo la sfortuna di avere delle guardie sadiche e fanatiche. Si sono rifiutate di prestarci cure mediche e di darci dei vestiti: ci hanno fatto fare lunghe ore di lavori forzati molto pesanti. La razione di cibo era di centocinquanta grammi di pane e mezzo litro di zuppa di patate scondita al giorno.

Dopo aver cercato disperatamente per due mesi di migliorare la nostra situazione ricevendo per tutta risposta dei blandi sorrisi, ho detto alle guardie cosa gli avrei fatto quando fossero arrivati i russi. Allora mi hanno dato un po’ di botte e rimosso dall’incarico di capogruppo. I pestaggi non erano particolarmente violenti: un ragazzo è morto di fame e due ne hanno fucilati le SS per aver rubato del cibo.

Intorno al 14 febbraio sono arrivati gli americani, seguiti dalla RAF, e con i loro sforzi combinati in ventiquattr’ore hanno ucciso 250.000 persone e distrutto tutta Dresda: forse la città più bella del mondo. Ma non me.

Dopodiché ci hanno fatto lavorare alla rimozione dei cadaveri dai rifugi antiaerei: donne, bambini, vecchi; morti sotto le bombe, nell’incendio o soffocati. I civili ci maledivano e ci prendevano a sassate mentre portavamo i corpi alle enormi pire funebri allestite in città.

Quando il generale Patton ha preso Lipsia siamo stati evacuati a piedi a Hellexisdorf, al confine tra la Sassonia e la Cecoslovacchia. Ci siamo rimasti fino alla fine della guerra. Le guardie ci hanno abbandonato. Quel giorno felice i russi stavano rastrellando sacche isolate di resistenza nel nostro settore. I loro aerei (P-39) ci hanno mitragliato e bombardato, uccidendo quattordici soldati, ma non me.

In otto, abbiamo rubato un carro e una pariglia. Abbiamo attraversato e saccheggiato i Sudeti e la Sassonia per otto giorni, vivendo da pascià. I russi vanno pazzi per gli americani. I russi ci hanno pizzicato a Dresda. Da là abbiamo raggiunto le linee americane a Halle su camion Ford della legge affitti e prestiti. Da allora siamo stati trasportati a Le Havre in aereo.

Scrivo da un circolo della Croce rossa nel campo per il rimpatrio dei prigionieri di guerra di Le Havre. Ci hanno trattato benissimo e dato da mangiare cose deliziose. Le navi dirette in patria sono strapiene, ovviamente, perciò devo avere pazienza. Spero di essere a casa entro un mese. Una volta lì, mi daranno ventun giorni per ristabilirmi ad Attenbury, circa 600 dollari di paga arretrata e – aprite le orecchie – sessanta (60) giorni di licenza!

Ho troppe cose da dire, il resto dovrà aspettare. Qui non posso ricevere posta, dunque non scrivete.

Un abbraccio,

Kurt jr.

29 maggio 1945

 

(da: Kurt Vonnegut, RICORDANDO L’APOCALISSE e altri scritti nuovi e inediti sulla guerra e sulla pace, Feltrinelli 2008, traduzione di Vincenzo Mantovani)

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