LE CINQUE SARACINESCHE

Il nostro balcone costituisce un punto d’osservazione particolarmente comodo, oserei dire “privilegiato”, su un’infilata di cinque saracinesche che se ne stanno su uno dei due lati corti della piazza alberata. saracinescaOvviamente, quando le saracinesche non sono abbassate, si può godere d’una vista molto più interessante: cinque vetrine quasi trasparenti, tenute pulite e luccicanti e qualche scorcio dell’interno. Ma quest’estate sono rimaste sempre chiuse. Ci si sarebbe potuti insospettire, ma non lo si è fatto: i mesi estivi, qui a Milano, corrispondono a un periodo di ferie generalizzate e la maggior parte della gente che solitamente tira su e giù le saracinesche se ne va in vacanza: chi a Riccione, chi a Gallipoli, chi a Dakha o a Craiova. Fino all’altro giorno erano sormontate da cinque insegne blu con su scritto in bianco (ma un bianco che la sera e la notte pareva fosforescente, come certe madonnine di plastica con dentro – forse – un po’ d’acqua di Lourdes)… con su scritto, dicevo: “Ristorante – pizzeria – Sunshine – specialità toscane – carne e pesce”.
Ieri, o l’altro, ieri, la Gio – rientrando dal balcone, dopo una fumatina solitaria – m’ha chiamato quasi urlando: “Vieni a vedere ch’è successo!”. Abbastanza allarmato (presagendo qualche preoccupante fatto nuovo accaduto su uno dei due lati corti della piazza), mi sono fiondato sulla mia poltroncina da balcone e non ho potuto che constatare, deglutendo più volte per ricacciare indietro l’ansia, la novità: le cinque saracinesche erano ancora chiuse ma le ben note insegne blu erano state sostituite da altrettante di colore arancione. Sulla plastica color Olanda, grazie all’abbondanza di spazio, avevano potuto comporre, in caratteri neri, quasi un romanzo: “Asian fusion – restaurant – take away – self-service – cucina asiatica”. È stato un discreto shock. Non che io, né tantomeno la Gio (figuriamoci!) s’abbia qualche avversione per i popoli dell’Asia o dell’Estremo Oriente. Anzi: noi… i cittadini della Cina Popolare, della Mongolia, dello Sri Lanka, del Giappone e di Taiwan, del Vietnam, delle Filippine, dell’India, del Bangladesh, del Pakistan, del Laos, della Cambogia e delle due Coree, di Hong Kong e Macao, della Thailandia e di Nyanmar, della Malesia, Borneo e Brunei (più qualsiasi isoletta, enclave, steppa o penisola mi sia sfuggita in questo affrettato riepilogo) li abbracceremmo tutti, uno a uno. Basta trovare il tempo. Il fatto è che io, personalmente, le gastronomie asiatiche non le reggo. In blocco.
Ma il fatto grave non è questo. Tanto, che sia toscano o giapponese, io a mangiar fuori non ci vado quasi mai. Il guaio è che, osservando dal nostro balcone l’andazzo (minimo), intorno a quel “Sunshine – specialità toscane – bla… bla” avevamo ricamato (soprattutto io, ma pure la Gio non s’era tirata indietro) delle storie mica da ridere! No, no: delle storie da brivido, roba da cagarsi sotto. Il fatto che il Sunshine – prima dell’ultima serrata estiva, intendo – risultasse quasi sempre vuoto o semi-vuoto e chiudesse regolarmente i battenti durante i fine settimana, come se lì non gliene fottesse un accidenti di spennare qualche avventore affamato, ci aveva dato parecchio da pensare. Da fantasticare. O, più precisamente, da speculare. Quel locale aveva tutta l’aria di essere una copertura di qualcos’altro. Qualcosa di molto diverso dalle ciotolone di ribollita, dalle fiorentine o dal caciucco. Dal nostro balcone si sprecavano ipotesi: riciclaggio di denaro sporco? Una “lavanderia” mascherata per i proventi di tremende attività criminali? O, addirittura, il luogo di ritrovo ben mimetizzato d’una segretissima super-‘ndrina a capo di tutti i ‘ndranghetisti dell’area milanese?
Spararle grosse, lì dal balcone, non costava niente. Anzi! Per qualche mese è stato un bel passatempo. Come altri fan le parole crociate o l’uncinetto. A un certo punto, al Pabuda, la faccenda è parsa un ottimo spunto per imbastirci su un vero e proprio romanzo.
Non è ancora stato scritto. Ma ne esiste un articolato scheletro: in una dozzina di cartelle ripiene di file con appunti e bozze e nel mezzo cervello del matto. C’è un sanguinoso attentato di fronte alle cinque vetrine. Avviene in un preciso e delicato momento che non è il caso di star qui a indicare. C’è un’indagine, anzi due: una ufficiale e una ufficiosa. Quest’ultima è condotta da un ex sbirro in pensione (Pabuda, su di lui ne sa – o se n’è inventate – di cotte e di crude, ma se ne parlerà a tempo debito).
Fatto sta che, per alimentare il passatempo e per dare corpo alle sempre più complesse diramazioni, ai presupposti, agli antefatti e alle storie collaterali della vicenda principale lo svitato Pabuda s’è fatto una piccola biblioteca e un affastellato archivio su la ‘ndrangheta e sulle mafie baltiche ma anche su certi misteri degli anni Settanta che potrebbero costituire il background professionale del vecchio sbirro in pensione.
E ora… cosa ci dovremo stare a inventare con una cucina di fusione asiatica color Olanda da portar via?!

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