L’AMERICANISTA BONETTO

Scrutò senza timore negli abissi imperturbati dello spazio, nella cosmica fraternità degli astri. Ma il cielo doveva essersi coperto, perché non si vedeva neanche una stella; e tirava, notò, un’arietta da stare attenti. Le rosse guglie di luci delle torri radio splendevano nitide sulla collina dell’Eremo, e più in là, in cima al colle della Maddalena, il Faro della Vittoria ruotava perenne su se stesso. Dall’incrocio esplose una vampa d’azzurro altissima e fruttero-lucentinisilenziosa.
L’americanista Bonetto si alzò. Al momento del congedo, si sentiva in comunione con i minimi particolari dell’universo. Perfino con le piante, mai fiorite, che sua madre s’incaponiva a tenere sul balcone dentro a una ventina almeno di dannatissimi vasi. Perfino – pensò con sterminata indulgenza – perfino con quell’entità infinitesima, con quell’atomo trascurabile, eppure anche lui necessario al tutto, che era il suo collega Marpioli.
Rise tra sé, ricordando che stamattina, e poi per tutto il pomeriggio e la sera, fino a notte inoltrata, era quasi impazzito – assurdamente – nel trovare una risposta adeguata a… a che cosa?
Non se lo ricordava nemmeno. Il superamento era stato completo, non aveva lasciato in lui né scorie né cicatrici. Marpioli era un puntino all’altra estremità del telescopio, assolutamente innocuo, assolutamente impotente. Il suo astio d’insetto, il suo livore di serpe, non lo toccavano più, gli facevano, anzi, una gran pena.
L’americanista Bonetto diede una scrollatina di spalle. Taluno – pensò con lucidissima, cristallina intelligenza – taluno…
Picchiò un gran pugno sulla ringhiera, si precipitò alla scrivania e infilò un altro foglio nella Remington.
L’ultima parola non era ancora detta.

(da: di Carlo Fruttero &Franco Lucentini, La donna della domenica, Adelphi, pag. 272)

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