IL TAMBURINO

(…) dentro di me continuava a riaffiorare una scena del documentario che aveva preceduto il film: davanti o tra gli interpreti de L’angelo azzurro danzava – per me ha importanza proprio il senso  letterale di questo danzare – il tambour.

La scena si svolgeva dopo l’arrivo di von Papen al governo e si intitolava così: “Giorno della battaglia dello Skagerrak, il picchetto di marinai destinato al palazzo presidenziale passa per la porta di Brandeburgo”.       cover LTI 02

In vita mia ho visto molte parate militari, nella realtà e sullo schermo; so quale sia l’importanza del passo di parata prussiano. Quando facevamo addestramento sull’Oberwiesenfeld di Monaco ci veniva detto: “Dovrete farlo bene come a Berlino!”. Ma mai precedentemente e, quel che più conta, nemmeno in seguito, nonostante tutte le parate davanti al Führer e le sfilate di Norimberga, mai ho visto qualcosa di simile a quella sera. I soldati scagliavano la gamba tanto in alto che la punta dello stivale pareva superare, oscillando, la punta del loro naso; era come se

ci fosse un unico slancio, un’unica gamba e nell’atteggiamento di tutti questi corpi, anzi di quest’unico corpo c’era una tale spasmodica tensione che il movimento sembrava irrigidirsi come irrigiditi erano già i visi, tanto che la truppa dava al tempo stesso l’impressione di un’assenza di vita e della massima animazione. Però io non ebbi il tempo o, più precisamente, non trovai nella mia capacità d’attenzione uno spazio libero per risolvere l’enigma di questa truppa perché questa costituiva solo lo sfondo per una figura da cui essa, e io con lei, era dominata: il suonatore di tambour.

Questi, che marciava davanti a tutti, teneva la mano sinistra, dalle dita divaricate, saldamente sul fianco, anzi, come per tenersi in equilibrio, piegava il corpo verso questa mano, su cui si poggiava, mentre il braccio destro che reggeva la bacchetta era levato ben in alto nell’aria e la punta dello stivale della gamba sollevata pareva voler raggiungere la bacchetta. Così l’uomo, tutto inclinato, si librava nel vuoto, monumento senza base, mantenuto miracolosamente ritto da uno sforzo spasmodico delle dita dei piedi che lo percorreva tutto. Quello che stava eseguendo non era un puro e semplice esercizio, era una danza arcaica oltre che una marcia da parata, l’uomo era al tempo stesso fachiro e granatiere. Una tensione e un contorcimento convulso abbastanza simili si potevano ritrovare nelle opere d’arte e nelle poesie espressioniste di quel tempo, ma irrompevano con la violenza di un’assoluta novità nella vita vera e propria, nella vita semplice di una più che semplice città. E una sorta di contagio emanava da essa: urlando, molti si accalcarono immediatamente dietro la truppa, le braccia tese selvaggiamente parevano pronte a ghermire, gli occhi sbarrati di un giovane in prima fila esprimevano un’estasi religiosa.

Il tamburino fu il mio primo incontro sconvolgente col nazionalsocialismo, che, precedentemente, nonostante il suo dilagare, mi era parso un insignificante e passeggero traviamento di minorenni. Qui vidi per la prima volta il fanatismo nella sua forma specificamente nazista; da questa figura muta mi venne incontro per la prima volta la lingua del Terzo Reich.

(da: Victor Klemperer, LTI Lingua del Terzo Reich – Taccuino di un filologo, Giuntina 2017 quinta edizione, pagg. 34-35)

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