CIRCOSTANZE

Quando la guerra entrò in città ero ancora incredulo. Entrò di soppiatto, con pochi spari in periferia e   Pintor col Manifestoqualche scontro disperato, sorprendendo la gente inerme e spaurita. In quei giorni di massima confusione, accompagnando mio fratello per ministeri e caserme e seguendolo in improvvisati cortei, avevo visto fallire ogni tentativo di organizzare una difesa armata. Ma era diffusa l’illusione che l’occupazione sarebbe stata una breve parentesi. E quando lui partì con mezzi di fortuna per il Sud, con ambiziosi progetti di riscossa, non dubitavo che ci saremmo ritrovati in pace dopo qualche settimana. Per un po’ fu un seguito di piccole avventure, in un clima di cospirazione che non prendevo sul serio. Per sfuggire ai bandi di coscrizione finii in una casa di campagna dove giocavo a scacchi e in un convento dove si aggiravano gerarchi travestiti da prete. Ma tornai presto nelle strade perché il rischio era modesto e preferibile all’umiliazione. E anche nelle ore di coprifuoco cominciai ad avventurarmi fuori di casa per appendere agli alberi o ai lampioni piccole bandiere rosse. Erano le bandiere che avevano sbaragliato sul campo le armate tedesche e umiliato le loro insegne uncinate, le bandiere da cui dipendeva in quei giorni l’onore del mondo. (…)
Se un pomeriggio domenicale mi misi a sparare in mezzo a una strada, contro persone sconosciute, non so dire fino a che punto fu una scelta consapevole oppure una costrizione delle cose. Non ero un ragazzo pauroso ma nemmeno troppo coraggioso, non avevo nessuna inclinazione alla violenza e non avevo mai maneggiato neppure un fucile ad aria compressa. Come mi accadde di compiere quell’azione è un interrogativo a cui ho dato col passare del tempo molte risposte diverse e nessuna esauriente.
Non ero solo, eravamo in cinque compagni di scuola. Ero stato a sentire un concerto stringendo nelle tasche una pistola e una piccola bomba a mano che erano tutto il nostro armamentario. Fuori dal teatro incrociammo due militari e li seguimmo a lungo, senza risolverci a nulla, finché all’uscita da un giardino pubblico velocemente li raggiungemmo e sparammo. La mia arma era così intrisa di sudore che si inceppò, lasciandomi stordito. Fuggii velocemente, perdendo il cappello. Non avevo mai portato il cappello, era una mascheratura puerile e senza ragione e tornai indietro a riprenderlo. Della gente era scesa da un tram e aveva preso a strillare e a inseguirci, forse la nostra impresa aveva l’aria di una rapina più che di un’azione militare. Ma correvo veloce, avevo in mano la piccola bomba, gli inseguitori si dispersero e noi scomparimmo per vie laterali.
Posso dare molte spiegazioni, la più semplice è che c’era la guerra. Altri come me la combattevano da tempo, una guerra invisibile e per questo più infida, infiltrata nella vita quotidiana, intessuta di agguati, in una città grigia dove ai miei occhi sembrava che piovesse sempre.
Molta gente inerme, in quei giorni, era stata sterminata nelle cave fuori città. Posso assicurare che i gendarmi tedeschi erano odiosi come tutti gli eserciti invasori ma con un tratto supplementare, la superbia della razza e quel gusto innato del comando che è (qualcuno l’ha detto) la peggiore linfa dell’uomo. È una cosa difficile da capire se non se n’è fatta esperienza, ma quelle divise grigie, quelle armi puntate, quelle grida rauche, quella crudeltà piatta, obbligavano alla rivolta la più mite delle persone.
Avevo saputo che mio fratello era morto, la notizia mi era arrivata in quei giorni con incredibile violenza e anche questo potrebbe spiegare il mio comportamento. Ma non lo credo, non c’è nei miei ricordi un sentimento di vendetta o ritorsione, il colpo che avevo ricevuto non era così epidermico. Semmai fu per un senso del dovere, che può essere ingannevole se non si accompagna a una matura convinzione. O forse fu semplicemente una questione di circostanze, alla fine è sempre una questione di circostanze. Amo tuttavia credere che nessuna circostanza mi farà agire di nuovo come in quel pomeriggio, contro un bersaglio occasionale, anche se avrò di nuovo quell’età.

(da: Luigi Pintor, Servabo, Bollati Boringhieri 1991)

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