ARRINGA IN DIFESA DI UN GIOCATORE DI RUGBY

Una notizia di questi giorni: tre giovani di buonissima famiglia, fra cui un noto cardiologo di Roma, rinviati a giudizio per rissa. Si potrebbe credere a prima vista che si tratti di gioventù bruciata. No, grazie al cielo. I tre giovani, oltre ad essere di buonissima famiglia, sono essi stessi bravissime persone, molto per bene, distinti, incensurati e universalmente stimati; per limitarci al noto cardiologo, si tratta del dottor Piermarcello Farinelli, nipote di Pietro Mascagni e figlio della scrittrice Emi Mascagni. Ma lo strano della notizia non è che, a macchiarsi del presunto reato di rissa, siano stati dei tipi di questo genere. Lo strano è invece, che essi siano stati rinviati a giudizio: Forse l’accusa è falsa? Non lo so. Pare, stando ad essa, che, durante una partita allo stadio “Torino” di Roma, accecati dalla passione sportiva essi abbiano sospeso la competizione per abbandonarsi a una rissa. Ora, il fatto e il conseguente rinvio a giudizio sarebbero spiegabili se si fosse trattato di una partita di canasta o di scopone: i giocatori, accecati dalla passione, interrompono la partita per darsele di santa ragione. Ma il fatto è che si trattava di una partita di rugby e il rugby, come tutti sanno, non è che una specie di rissa continua in cui i giocatori si contendono con tutti i mezzi il possesso di una palla ovale, caricando violentemente l’uno e l’altro, colpendosi, acciuffandosi e facendo, senza esclusione di colpi, tutto quello che si usa fare rissando. Basterebbe vedere quella fase di gioco che si chiama melée o mischia, quando tutti i giocatori formano un groviglio inestricabile in cui lottano l’uno contro l’altro.    AZIONE RUGBY 01

Primo fatto strano: a un certo punto questi giocatori, accecati dalla passione sportiva, smettono di darsele di santa ragione, allo scopo di darsele di santa ragione. Secondo fatto strano: la polizia interviene acciocché i contendenti smettano di darsele di santa ragione, allo scopo di ricominciare a darsele di santa ragione.

Quanto al primo dei fatti strani: era proprio necessario che i giocatori sospendessero le botte professionali, diciamo così, per darsene di non professionali? Quanto al secondo: come si fa a distinguere tra botte professionali e non professionali e che differenza si trova fra le une e le altre?

E’ il caso, pure capitato a Roma, di due pugilatori che, durante un incontro, accecati dalla passione sportiva, si presero a pugni. Ma se già  stavano prendendosi a pugni? Era proprio necessario che sospendessero i pugni, per darsene altri? E, visto che si sono regolati così, era proprio necessario, per i tutori dell’ordine, di intervenire acciocché i due smettessero di fare a pugni e riprendessero la competizione, consistente appunto nel fare a pugni? “Via, via”, diceva il pubblico, “smettete di fare a pugni e fate a pugni”. Difatti, quando i due si furono rappacificati, non fecero altro che ricominciare a darsele.

Insomma, più strano di tutto appare, in questi casi, il contegno delle autorità, che intervengono per ristabilire l’ordine; il quale ordine consiste nel fatto che i contendenti ricomincino a darsele.

Certo, non è bello che, durante un incontro di pugilato, i due contendenti diano il poco edificante spettacolo di prendersi a pugni. Dovrebbero fare come quel pugile che, durante un incontro, disse all’avversario: “questo pugno te lo farò pagare; ci vedremo fuori, dopo il match”.

(…)

Un altro caso del genere capitò a un incontro di lotta libera, dove uno dei contendenti, in un momento di rabbia per un colpo dell’avversario di cui non era rimasto soddisfatto, sollevò, di peso questo, il quale, tra parentesi pesava più di un quintale e mezzo, e lo scaraventò fuori del quadrato. “Perchè avete fatto una cosa simile?” gli domandò il giudice, al processo che ne seguì. E il lottatore: “Signor giudice,è stato un momento di debolezza”.

Tornando alla notizia da cui abbiamo preso le mosse, io vorrei pregare il giudice di voler essere questa volta clemente verso i tre giocatori incriminati. Non soltanto per gli argomenti già  detti, cioè i tre sono bravissimi giovani di ottima famiglia, e che il rugby è esso stesso una rissa continua, ma anche per il fatto che il rugby è forse lo sport più povero, più disinteressato e, malgrado le apparenze e la sostanza violenta, più aristocratico d’Italia. Esso, infatti non è riuscito, da noi, a diventare popolare come  (…) il giuoco del calcio. Perciò, mentre in Italia il calcio rende somme favolose ai giocatori professionisti (specie se stranieri), il rugby non rende una lira a chi lo giuoca. Ragion per cui a praticarlo sono i signori, degli appassionati, che invece di guadagnarci ci rimettono di tasca propria. Si tratta generalmente di studenti universitari, di intellettuali, e varrebbe la pena di parlare un po’ di questo sport così poco noto.

(da: Achille Campanile su L’Europeo, ottobre 1957; ripubblicato in: Giorgio De Tommaso, Rugby: etica di uno Sport, Ed. Piero Gabrielli, 1976; Giorgio De Tommaso, il cui vero nome era Piermarcello, era il figlio di Emy Mascagni, con la quale Campanile ebbe una lunga relazione. L’editore Piero Gabrielli, campione di rugby ed impresario musicale e teatrale, fu proprietario del più noto night club di Roma, Le Grotte del Piccione, dove si svolgeva la dolce vita romana).

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