AMORE IN GOLA (Short Tale)

ROSE MOLTO FITTESul lato meridionale della casetta occupata di via Gola era rimasta una zona completamente incolta, dove lo sviluppo della vegetazione era stato lasciato da chissà quanti anni completamente al caso e ai capricci della natura e dei venti e forse di qualche inaspettata esondazione del canale che scorreva non lontano. L’idea era di radere al suolo tutto quanto e creare uno spazio che somigliasse a un pista da ballo campagnola, per la grande fiesta del colectivo. Un’intricata piccola foresta di pioppi rachitici e sbilenchi, bagolari spaccasassi, edere d’acciaio, sambuchi, acacie e salici deformi quasi ripiegati su se stessi, felci, ortiche e robinie soffocanti andava spazzata via. Tra i rovi e i cespugli non mancavano la spazzatura e resti di varia origine: tutto da eliminare scrupolosamente.

Il gruppetto di immigrati incaricato di far piazza pulita non risparmiò energie. Los compañeros, più Oscar ed Elvezia a dar man forte, si diedero un gran daffare con gli arnesi che aveva recuperato Splendida per l’abbisogna. Lo fecero in allegria, chiacchierando e sbuffando e ridendo e smoccolando e cantando e sudando copiosamente. Miguelito, per niente ostacolato dal voluminoso panzone tipico del super-bevitore di birra, dava colpi a destra e sinistra con una specie di machete dalla lama vistosamente danneggiata, ogni due per tre tracannava un po’ di birra Cristal, prelevata dalla sua riserva personale; Marcos si accaniva sui tronchi delle piante più grosse con un saracco, l’unica vera sega da boscaiolo a disposizione, mentre Magdalena, tra quegli uomini sudati a torso nudo, faceva un figurone: nel suo mini-bikini da infarto, assestava, quasi danzando, chirurgici colpi d’accetta per demolire il tenacissimo reticolato di rovi ed edere abbarbicate. Akhmed, uno dei pochi arabofoni del gruppo, a testa bassa, affrontava i problemi alla radice, infierendo a colpi di roncola alla base di sambuchi e robinie. Completata la prima fase di devastazione, roba che manco col napalm… la rumorosa combriccola passò a sradicare i monconi di pianta ch’erano rimasti e si dedicò a spianare la radura rimasta sgombra: nel giro di altre quattro ore fu trasformata in una piccola pista da ballo in terra battuta, come da piano. Terminato il lavoraccio, tutta la squadra di improvvisati operatori forestali si rifugiò in casa per rinfrescarsi e riposare un po’. La famigliola occupante s’era dileguata. La “squadra disboscamento” invase la villetta. Non c’è bisogno di specificare chi ritenne che la miglior cura per riprendersi da quella faticaccia fosse una colossale bevuta di cerveza. Tutti approvarono. I frigo (peraltro, ben forniti) furono svuotati delle birre di varie marche. Meno prevedibile, invece, fu lo show offerto dalla strepitosa Magdalena che, tra un’ingollata e l’altra, tra un brindisi e qualche rutto celebrativo, sfoderò il suo repertorio di cumbia, techno-cumbia e chicha, con ancheggiamenti e vortici di ombelico da far resuscitare i morti. Ad  Akhmed stava per venire un coccolone, di fronte all’esercito di birre schierato  sul tavolo e alle prodezze danzerecce della giovane amazzonica. Si scaraventò su una poltrona e, accettando una peccaminosa lattina di birra del discount, valutò che, tutto sommato, un po’ di haraam se l’era meritato anche lui. Così, peccò e bevve alcol, per conto suo ma con una certa leggerezza e con gusto. Il Grande e Misericordioso avrebbe chiuso un occhio, pensò. Oscar ed Elvezia, che non avevano questo genere di preoccupazioni teologiche, invece, quasi senza accorgersene, si ritrovarono pericolosamente vicini, praticamente appiccicati, sul divano.

Oscar ci aveva pensato più di una volta. Non ne aveva mai fatto un’ossessione, però. Elvezia era molto attraente e, a occhio e croce, doveva essere una tipa abbastanza portata e di larghe vedute. Ma il fatto che fosse la figlia di Gildo l’aveva sempre, un po’ inspiegabilmente, trattenuto da qualsiasi tentativo di farsi avanti. Quando ci aveva pensato, si era detto che  al “momento X” avrebbe dovuto farsi trovare nelle migliori condizioni possibili: perfettamente sbarbato, ben lavato e pulito e abbondantemente profumato con la sua colonia preferita. Roba economica ma classica e, a detta di alcune sue  partner del passato remoto, irresistibile… con quel lieve ma ben distinguibile aroma di mandorla. Roba di un secolo fa, comunque. Roba della sua vita precedente. Roba al di là dell’Atlantico. Ma quando si presentò l’occasione (e Oscar l’occasione la riconobbe con una certa prontezza) le condizioni non erano affatto ottimali. Era lercio e accaldatissimo, con addosso un forte odore di terra, erbacce e sudore.  Ma, come capita sovente, tutto cominciò inaspettatamente, per gioco. Il caldo. Le birre una via l’altra. “Vieni qui che t’aiuto a rimetterti in sesto. Ma guarda che tra i capelli ti è rimasto mezzo bosco…”. “Miras que…. Anche tu tienes un… monton de paja nei capelli.” Poi… il passo da una specie di affettuosissimo grooming all’inizio d’un affannato denudamento fu breve. Interruppero bruscamente la reciproca svestizione quando s’accorsero di non essere soli. Oltre ad Akhmed, sprofondato nella poltrona e in chissà quali sogni, c’era un tizio che silenziosamente e scrupolosamente stava raccogliendo lattine e bottiglie vuote, uscendo e rientrando dalla porta-finestra che dava sul giardino.

All’unisono si paralizzarono, come in quel gioco… come si chiama? Un, due tre, stella! Dopo di che, dando qualche occhiata di qua e di là, si alzarono dal divano, uno coi malconci pantaloni di velluto marrone a mezz’asta che gli impedivano di camminare disinvoltamente e una camicia a quadri rimastagli addosso solo per metà, l’altra col vestitino viola tutto arruffato. Saltellando e reggendosi a vicenda, abbandonarono la cucina-soggiorno un po’ troppo popolata e si rifugiarono in un’altra stanza, la prima che trovarono, svoltando a destra nel corridoio, dove uno sterminato lettone fu l’unico testimone dei successivi sviluppi. Rotolandoci sopra, prima per un verso poi per l’altro, quasi a volerne misurare l’estensione a ruzzoloni, i due si stringevano e poi si scostavano un poco: per baciarsi con foga improvvisa, per guardarsi in faccia stupefatti e divertiti. Oscar sorrideva a mezza bocca producendosi in una smorfia che lui intendeva  per metà di sorpresa e per metà maliziosa ma agli occhi di Elvezia risultava solo irresistibilmente buffa. L’espressione del viso di lei, invece, non poteva essere fraintesa né richiedeva interpretazioni: il sorriso aperto e quel luccichio dorato che le illuminava gli occhi verdissimi esprimevano allegria senza remore. A un certo punto, si scrutarono per un attimo rapidissimo, come se, nella testa di entrambi, qualche dispositivo mentale misterioso avesse voluto scattare un’istantanea. In men che non si dica ripresero a sbucciarsi, a cavarsi l’un l’altro gli indumenti: lo facevano abbastanza rapidamente ma senza foga o frenesia: pur senza dirselo, avevano concordato che valeva la pena gustarsi quel gioco. Il leggero vestito di Elvezia fu il più rapido a sfilarsi e a volar via, posandosi ai piedi del letto. In questo modo, fu lei a trovarsi per prima liberata dall’impiccio del tessuto, per quanto leggero. Ne profittò per mettersi a cavalcioni di lui, all’altezza della cintura, sollevando e distendendo il busto e le spalle, poi allungando anche le braccia, in un movimento che mimava l’atto di stiracchiarsi ma – pensò il troppo pensieroso Oscar – risultava in una posa che comunicava la presa del controllo della situazione e una gioiosa mostra di sé e del proprio corpo. O, forse, come in un gioco di bambini, significava: “Primaa! Sono arrivata prima! Mi son spogliata più alla svelta di te! Uno a zero!”. Solo in quell’istante lui realizzò che la stanza, nonostante le tendine a fiorellini, un po’ da casetta di Haidi, era completamente illuminata dal potente sole estivo. Spalancò gli occhi e, in preda a una certa eccitazione, prese mentalmente nota del meraviglioso contrasto cromatico che produceva il reggiseno viola con la pelle bianchissima di lei, qua e là punteggiata da costellazioni di lentiggini, minutissime.  Contemporaneamente, o nell’istante immediatamente successivo, si rese conto anche lei di essere inondata di luce solare come se fosse sotto i raggi d’un proiettore potentissimo e parve reagire a quella fulminea constatazione accentuando i suoi movimenti, l’estensione delle braccia e l’esibizione del proprio petto, ancora in buona parte trattenuto dal reggiseno. All’improvviso, ritrasse le braccia a sé, portandole a coprirsi, in una simulazione di pudore. Ma, in un nano-secondo, le mani scomparvero dietro la schiena, per slacciare il gancetto del reggiseno. Oscar, come chiunque l’avesse guardata anche solo di sfuggita, sapeva di quella dote femminilissima di Elvezia, ma davanti allo spettacolo che gli stava offrendo ebbe per un gradevole istante il dubbio di perdere la ragione, biascicò un paio di volte senza emettere alcun suono e rimase a bocca aperta e occhi sgranati. S’era immaginato qualcosa del genere ma non poteva figurarsi ciò che stava fissando inebetito: due strepitosi seni grandi e candidi, i cui capezzoli erano disegnati con un color rosa che neanche nelle favole. Elvezia rise a lungo, di un riso a pieni polmoni, largo e sonoro, lasciando che le risate provocassero vistosi sobbalzi e ondeggiamenti dei bei seni, chiari e abbondanti. Oscar non rise. Era stralunato e beato. Fu sfiorato da un dubbio appena percettibile ma acuto: “Sto facendo la figura del coglione?”. Incredibilmente, intanto, lei si trovò a chiedersi: “Penserà che sono scema?”.  Risolsero le rispettive, risibili inquietudini travolgendole in un abbraccio di cui non si sarebbero creduti capaci, tanto fu deciso, muscolare, energico. Manco fosse l’ultimo! Sapevano benissimo che era solo il primo, eppure si stringevano da togliersi il fiato. Elvezia impose un movimento che li fece rotolare, strettissimi, fino al bordo del letto, sulla destra. Insieme si resero conto che avrebbero potuto capitombolare sul pavimento e s’arrestarono appena in tempo. A lui sfuggì la solita immancabile esclamazione bisillabe: “pucha!”. A quel punto una nuova risata di lei, ma diversa da prima, contagiò pure Oscar.

Mescolandosi, le risate dei due presero un’unica forma, si fusero in una ridarella quasi bambinesca, mentre gli sguardi si soffermarono in una comunicazione del tutto nuova: Elvezia e Oscar si guardavano con occhi esplicitamente complici, sfacciatamente maliziosi. Si guardavano, si rimiravano l’un l’altro per lenti secondi, poi, ancora, riprendevano a rotolarsi, stringendosi per allontanarsi un po’ dopo, abbracciandosi e ruzzolando. Parevano due cuccioli di tigre impegnati in una zuffa di quelle per scherzo. Ma non erano cuccioli già da un pezzo: quella specie di fiatone che li prese non era un time-out per recuperare ossigeno: erano le prime onde del desiderio che, generandosi dalla pancia e dalla testa di entrambi, cominciavano a traversare  i corpi di lei e  di lui, come in una manovra d’accerchiamento: da giù e da su mobilitate a investire cuore e polmoni: solo gli esordi della mareggiata che s’annunciava.

Con poche rapide e accorte manovre Elvezia riuscì a prender possesso dei pantaloni di Oscar, per appallottolarli e spedirli a far compagnia al vestitino viola. Lo fece con tale decisione e delicatezza insieme che Oscar ebbe solo una vaga cognizione di ciò che era accaduto. Certo, per un attimo sentì un po’ più freddo alle gambe e lì in mezzo. Quella sensazione svanì appena Elvezia si sdraiò su di lui riuscendo con incredibile precisione a realizzare un morbido contatto speculare. Spalle contro spalle, petto su petto, pancia sopra pancia, pube poggiato a pube, le cosce di lei a premere leggermente su quelle di lui. Un altro piccolo gioco dentro a quel gioco che con sempre maggiore trepidazione desideravano  far diventare grande almeno quanto il lettone su cui giacevano.

Fu ancora una volta Elvezia a cambiare le carte in tavola: quasi di scatto tornò ad ergersi sulle ginocchia, ben piantate ai lati del bacino di Oscar. Nel farlo, dio solo sa come, riuscì a liberarsi delle mutandine. Una piccola performance dell’Elvezia acrobatica! Quindi, in un attimo si pose china sul corpo di lui, in una posizione che ricordava quella della salāt, con la fronte che sfiorava l’addome del maschio. Chissà perché quel parallelo con la preghiera musulmana le traversò fulmineamente le regioni neurali della fantasia. Già che le era venuto in mente, senza pensarci davvero, accentuò spudoratamente questa disposizione adorante e prese a venerare quel corpo che sino a qualche mezz’ora prima le era quasi sconosciuto: avvicinando il volto e la bocca spalancata alla pelle di Oscar, alitandovi sopra quasi rumorosamente e chiudendo le labbra solo per distribuire morbidi bacetti, senza tanta enfasi, qua e là. Ma, appena scorse i graffi e le feritine che Oscar s’era procurato durante i lavori disboscamento e che gli rigavano buona parte del petto e le braccia, s’inventò un altro gioco e un’altra preghiera: tirò fuori la lingua e prese di mira quelle minime escoriazioni e quei sottili taglietti: per curarli: all’inizio con timide e scherzose leccatine, poi con umide carezze sempre più calde e insistite. Il “ferito” fu preso completamente alla sprovvista. Gli parve di sentire una voce, cioè… una specie di voce proveniente dal fondo dello stomaco: diceva, con cadenza incerta e tono completamente imbambolato: “Ehe? …ghehh? …do… dove sono? Ch.. che succede? Chi è?”. Preferì, saggiamente, non darle eco e non ripetere davvero quei versi e quelle mezze parole da idiota. Se ne rimase afono, respirando profondo, godendosi la cura imprevista e lasciando che l’eccitazione si riverberasse in ogni angolo del suo corpo, attraverso piccoli tremiti, come dei brividi… fatti di una sostanza intangibile  eppure calda tiepida consistente. L’epicentro di quel piacevolissimo sconquasso era tuttavia celato  sotto le mutande, dove si produsse una sempre più convinta erezione, tanto da non poterla dissimulare (ma perché poi?). Lei, come in tutte le cose che fa nella vita, fu particolarmente scrupolosa. Non lasciò che neppure il più insignificante graffietto rimanesse privo del suo goccio di saliva, abbandonato a se stesso senza almeno una leccata, un bacio, un micro-massaggio a labbra morbide. Ogni centimetro della pelle di Oscar conservava l’odore e il sapore di qualcuna delle piante contro le quali aveva combattuto poche ore prima. A Elvezia sembrò che i graffi e le piccole ferite avessero trattenuto più gelosamente questi aromi. Ma forse era solo una sua idea. Fatto sta che pareva non stancarsi mai di leccare l’uomo che stava sotto di lei. Era curiosa, però, di vedere che faccia faceva. Così, ogni tanto si interrompeva un poco, alzava appena la testa e lo sguardo per scorgere il viso di Oscar. Oppure si alzava di nuovo sulle ginocchia ed  esaminava sfacciatamente l’oggetto delle sue cure. Lo sguardo di Elvezia non aveva più quella luminosità giocherellona e spensierata di prima: s’era fatto voluttuoso e avido ma, a tratti, anche allusivo e promettente: diceva: “Ragazzo mio, ti tirerò via tutto quel che mi piacerà leccare, saggiare e succhiare ma, in cambio, ti regalerò, adesso, tra poco, sensazioni che non hai mai immaginato di poter provare, in questa vita”. Così impegnati nel comunicare messaggi di sfida talmente intensi, eccitati e caldi e umidi e impegnativi, gli occhi le si velarono leggermente di lacrime: non riuscirono mai a guardarlo davvero in faccia e portare a termine i compiti d’osservazione analitica a loro assegnati. Eppure, quel poco delle funzioni raziocinanti rimaste all’erta nella mente piacevolmente scombussolata della nostra bella Elvezia riuscirono a captare una visione piuttosto dettagliata dell’uomo sdraiato sotto di lei: un torso magro ma non scarno, quasi completamente glabro, fatto salvo per pochissimi peli intorno ai capezzoli bruni e piccoli e per i ciuffetti minimi sotto le ascelle. Si notavano un po’ le costole, soprattutto quando la cassa toracica faceva un po’ su e giù, sottolineando  un respiro profondo, leggermente in affanno. Il colore della pelle era brunito, come certi metalli scuri. Non sembrava il fisico di uno sportivo. Semmai, forse, Oscar aveva fatto un po’ la fame, in qualche periodo della sua vita. Elvezia non scorgeva muscoli pettorali gran che sviluppati. Anche le braccia sembravano un po’ striminzite, benché avesse percepito che avevano una bella forza, quando erano abbracciati e si stringevano. Invece, le gambe erano ben muscolose: cosce quasi poderose e polpacci tosti. Potevano essere d’un calciatore. Ma le sembrò più probabile Oscar fosse stato un gran camminatore. Carezzò più volte quelle gambe: dall’alto verso il basso e poi di nuovo, in su. Erano pelose. Ma non troppo. D’un pelo gradevole da carezzare. Sulle gambe c’era qualche graffio. Lo si sentiva anche passando la mano con leggerezza. Non ci aveva pensato, prima. Così, decise di curare anche quelli. Baciandoli e leccandoli. Mentre lo faceva, immaginò fosse stato affidato alle sue cure, alle sue mani, alla sua bocca e alla sua lingua una specie di San Sebastiano. Il martire trafitto dalle frecce. Sentì un fremito percorrerla e un calore umido tra le cosce.

Il trip erotico-mistico stava, a questo punto, rischiando di sovrastare le più spontanee e genuine propensioni di Elvezia. Vi pose fine con gesto semplice: liberò il pene di Oscar dalla costrizione delle mutande. Lei censurò un sorriso, mordendosi il labbro inferiore. Non voleva in alcun modo ferire le pretese di virilità del simpatico Oscar. Tutt’altro! Il fatto è che l’uccello dell’amico peruviano, fuoriuscendo dalla trappola degli slip, in virtù d’un’indiscutibile e  cocciuta erezione,

dopo essere stato affettuosamente accompagnato in una posizione un po’ innaturale, era tornato, con un buffo movimento elastico immediato, a poggiare sul pube e la pancia. Le parve addirittura che avesse fatto “doing”, ma quelle cose succedono solo nei cartoni animati!

Inghiottì l’inopportuno accenno di sorrisetto e, per evitare inutili rischi di fraintendimento, modificò completamente la propria posizione: s’accocolò tra le gambe di Oscar, inducendolo con lievi spintarelle del sedere e delle cosce a destra e a sinistra ad aprirle per farle spazio, poggiando poi la testa sul lato destro del bacino di lui, con lo sguardo rivolto verso quel pene incaico che, nonostante tutto, si manteneva rigido e vigile. Per qualche interminabile secondo lei non si mosse, con tranquillità esaminò quel coso e, tra sé, fece qualche rapida e sintetica considerazione: “Caspita! Non è grosso… ma… è proprio lungo! E poi… è scuro. È scurissimo! Beh… bello!”. A un’analisi ravvicinata non presentava graffi o danni di alcun genere. Elvezia valutò che non era necessario sottoporlo alle medesime cure che aveva dispensato a quasi tutta la superficie del corpo di Oscar.

O per lo meno, non ve n’era alcuna urgenza. Si limitò a tenerlo sotto osservazione. Cioè, lo guardava e… lo annusava un po’: aveva un buon odore. Lasciò trascorrere ancora un po’ il tempo osservando l’erezione di Oscar. Si sentiva… come dire… lusingata per quell’indubitabile manifestazione di apprezzamento. Sapeva che, a lungo andare, poteva risultare anche un po’ dolorosa. Improvvisamente, si levò di nuovo: prima si mise in ginocchio: per afferrare con la mano destra l’oggetto delle sue curiose osservazioni e carezzarlo e stringerlo senza esagerare, poi, cercando di mettersi in equilibrio poggiando i piedi appena discosti ai lati del corpo disteso di Oscar, si portò nella posizione ottimale per guidare e accogliere dentro di sé il sesso rigido dell’amico. Si sistemò in modo che s’infilasse tutto e fu lieta di constatare che aveva visto bene: l’aggeggio oscariano non era ingombrante, s’era intrufolato in lei senza difficoltà e lo sentiva raggiungere profondità che i partner usuali non erano soliti visitare. Assecondò quella penetrazione gentile e ardita: muovendosi come la risacca del mare, a onde piccole e poi più distese interrompendosi improvvisamente per provare a stringere l’ospite che aveva in lei. Ebbe la quasi completa certezza d’essere in grado di sentirlo tutto, apprezzandone molto distintamente la tensione. Riuscire a trattare a quel modo il cazzo di Oscar, godendoselo, le fece provare un particolare senso di soddisfazione. Anche oscar era soddisfatto e, ora, lo mostrava sorridendo. Elvezia allentò la presa per un attimo. Il suo compagno, ne approfittò per prendere fiato. Appena in tempo: il movimento che poco prima sembrava disegnare  l’andirivieni dell’acqua marina presso il bagnasciuga prese a crescere inventando più decise increspature, poi onde incessanti e ripetute, di varia imprevedibile ampiezza e portata. Non mancarono imbizzarriti marosi oceanici.

L’uomo su cui si scatenò tale amorevole mareggiata non fece l’errore di resisterle: si fosse impietrito come diga foranea sarebbe stato schiantato senza alcun godimento e non avrebbe restituito alcunché  alla travolgente Elvezia. Invece, si trasformò in vascello pirata e riuscì a destreggiarsi tra le ondate e i marosi, assecondandoli e lasciandosi trasportare. Eppure si illuse d’esser lui a stabilire e mantenere la rotta. Ci pensò e il pensiero fu travolto da un cavallone marino, poi un’altra ondata e una raffica di onde più piccole. Avete presente quei luoghi magici dove s’incontrano due oceani, come al largo del Capo di Buona Speranza? Ecco lì si produce una sommessa tempesta, un rimescolamento che rende gli oceani indistinguibili: ora, sul lettone, fatte le debite proporzioni, stava accadendo qualcosa di simile.

Ovviamente, Elvezia e Oscar non si perdevano in questo mare di pudiche metafore. I loro cervelli, come i loro corpi, erano presi da qualcosa di molto più interessanti: era tutto dannatamente, deliziosamente vero.

Non c’era bisogno di pensare. Per essere più precisi:  le  volute cerebrali non erano intasate dal solito traffico di pensieri modesti, informazioni insignificanti o inutili, ricordi confusi, timori, preoccupazioni, speranze infondate, progetti inconcludenti: i cervelli dei due erano come… in comunicazione diretta, grazie a una qualche connessione magica. Ma ci si deve fermare qui: è possibile riferire solo ciò di cui fu testimone il lettone. E un lettone, per quanto grande, accogliente ed esperto in faccende di sesso, non poteva intercettare e interpretare quel che passava per la testa dei due. Al massimo, il lettone percepiva i movimenti: Oscar che accoglieva le onde rotonde, rincorreva le ondate più lunghe e distese, quelle buone per il surf, mentre ad altre, che eran delle specie di domande, lui rispondeva come poteva, con piccoli movimenti assertivi del bacino: rispondeva con brevi raffiche di sì pelvici. Elvezia che, senza fare alcun calcolo, di tanto in tanto, creava, come dal nulla, imbizzarriti marosi atlantici, alcuni quasi montagnosi e poi ripidi a capofitto.

Sinché, come per incanto, tutto si quietò e il lettone sentì su di sé due corpi naufragati, pieni di premure reciproche: si coccolavano, leccandosi un po’, delicatamente, a vicenda, senza sorprendersi di percepire sulla lingua un distinto sapore di sale marino. Dopo di che rimasero stesi, proprio come due naufraghi esausti, stesi sul letto in una posizione curiosa: discosti l’uno dall’altro, solo le teste si toccavano. Se li si fosse potuti osservare dall’alto, si sarebbero visti i loro corpi formare una specie di V. non parlavano né emettevano alcun suono o rumore. Solo che, adesso, pensavano intensamente: lei a lui, e lui a lei. A dispetto dell’immobilità, pensavano pensieri veloci, pensieri piccoli ma inediti, briciole di ragionamenti allegri e trionfanti. Quando sentirono un po’ freddo si riavvicinarono e s’abbracciarono: in un abbraccio morbido e avvolgente, senza stringersi troppo, ma come proteggendosi e a vicenda. Forse si scambiarono qualcosa dei loro piccoli, veloci, incessanti pensieri.

Le lettrici e i lettori più curiosi, oltre a storcere il naso per la piega metaforica presa, proprio sul più bello, da questo lacunoso resoconto, si chiederanno quali accorgimenti anticoncezionali avessero adottato i nostri due amanti. La risposta è: il più diffuso, imbecille e sconsigliabile, nome in codice: “stiamo attenti, eh?”. In quell’occasione funzionò. Ma chiudiamo subito questa parentesi e torniamo ai nostri eroi sul lettone: solo quando il sole cominciò a calare e l’oscurità s’impadronì gradualmente della stanza, Elvezia e Oscar smisero di pensare e s’appisolarono. Anzi: dormirono. Ora sì ch’eran tornati cuccioli: come ci capita un  po’ a tutti, quando dormiamo. Loro dormivano quieti e lievi, respirando il minimo. Il sonno leggero dei naufraghi fu interrotto dall’arrivo di gente, sempre più gente che prese possesso del giardino per gli ultimi preparativi della festa.

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