AGO & FILO

Dopo qualche tempo abbandonai il mio posto di fianco al bugliolo. Ogni nuovo arrivo mi sospingeva verso la finestra, sinché mi trovai tra Kaethe Schulz ed un’insegnante russa di ginnastica. Uno dei suoi svaghi preferiti consisteva in un gioco con i fiammiferi, per mezzo del quale pronosticava se il nostro futuro ci conduceva in Siberia o in libertà. Naturalmente questo passatempo era severamente vietato, come d’altronde quasi tutto: cucire, parlare, cantare, correre e persino stenderci a sonnecchiare.   Margarete da giovaneCiononostante, ci applicavamo con passione sia nel cucito che nel ricamo. Avevamo a disposizione un unico ago e qualche gugliata di filo, usati per rattoppare i buchi e riattaccare i bottoni. Guai a noi se ci avessero sorprese a cucire qualcosa. Tutte le 110 detenute della cella sarebbero state private della passeggiata, degli acquisti nello spaccio e della biblioteca. Ma i prigionieri sanno arrangiarsi. Con i fiammiferi ci fabbricammo dei bellissimi aghi da cucito. Possedevamo i fiammiferi perché ci permettevano di fumare. Per assottigliarli li sfregavamo con infinita pazienza contro il muro ruvido oppure contro un cristallo di zucchero. Si strofinava un’estremità  fino a creare una piccola protuberanza e con l’unghia intagliavamo l’altro capo. Per finire si infilava il filo, serrandolo poi con un nodo. Questi “aghi” erano particolarmente adatti al ricamo. Ne esisteva anche un tipo raffinato, prodotto sacrificando un dente del pettine poi sottoposto allo stesso trattamento. Utilizzavamo gli aghi autorizzati – la cui perdita avrebbe comportato una punizione per tutta la cella – per liberare la cruna degli altri, dopo averne arroventato la punta con un fiammifero.

Nella cella riuscimmo persino a cucire un abito completo ad una donna incarcerata da molto tempo, la quale possedeva solo gli abiti che indossava il giorno in cui l’avevano arrestata per strada. I penitenziari di carcerazione preventiva non permettevano ai prigionieri di ricevere indumenti da casa ma neppure distribuivano biancheria, vestiti o coperte. Nello spaccio della prigione si potevano comprare degli strofinacci e mutande maschili. Alcune detenute imbastirono sei di questi strofinacci di lino grezzo. Ma come si taglia un abito senza le forbici? Risolsero anche questo problema. Tracciarono sulla stoffa il taglio da eseguire con la punta annerita di un fiammifero bruciato. Poi piegarono il tessuto lungo i contorni e – pieghettando l’angolo così ottenuto – lo avvicinarono ad un fiammifero acceso, avendo cura di ritirarlo a tempo debito. Il nostro filo da cucire proveniva dagli indumenti più diversi. Chi possedeva una maglia ne ricavava filo sufficiente per sei mesi di detenzione sfilandola solo fino all’ombelico. Anche il filo per rattoppare le calze si otteneva semplicemente accorciando le altre calze. Particolarmente ricercato per il lavoro a maglia era il filato di maglioni o giacchini colorati. Le russe erano delle vere maestre in questo campo. L’opulenta lettone che vagabondava da un gruppo all’altro ricamò a punto croce l’orlo e lo scollo dell’abito fatto di strofinacci. Lo ricordo come uno dei più indovinati modelli estivi.

(da: Margarete Buber-Neumann, Prigioniera di Stalin e Hitler, Il Mulino edizioni, pagg. 31-33)

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